Page 193 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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sostanza il meno italiano di tutti.
MARTINO GODELLI
Vendetti tutto e partii: quando la nave giunse a Haifa mi sentii a casa
Io sono uno dei pochissimi ebrei italiani scampati ad Auschwitz. In
Israele giunsi molti anni dopo la ne della guerra. Però sognavo di
venirci n dal 1938, l’anno delle leggi razziali, e in questo senso la mia
storia assomiglia alla storia degli altri: senza quelle leggi non avrei mai
pensato di venire qui. Appartenevo a una famiglia assimilata, avevo un
fratello che era fascista convinto. Ma i fascisti emanarono quelle leggi e
ne ebbi uno choc. Frequentavo il liceo classico a Firenze, ricordo. Per
evitare che i miei compagni di scuola rompessero i contatti con me, li
ruppi subito io. Poi presi a frequentare i campi di addestramento per gli
ebrei destinati ai kibbutz a Cevoli di Pontedera, in una tenuta agricola
messa a disposizione dai Raccà. Come Gisella, mia moglie, ero pronto a
partire il 16 giugno del 1940. Non partimmo quel giorno perché il 10
giugno Mussolini dichiarò la guerra e i nostri certi cati furono revocati.
Finita la guerra, dovevo venire col gruppo del 1948: per stabilirmi a
Ghivat Brenner. Ma avevo i genitori a carico, non potevo portarli nel
kibbutz, e così fui costretto ad attendere no al 1954. Sono uno degli
ultimi, insomma. Uno dei nuovi.
La mia storia incomincia nel gennaio del 1944 quando fui arrestato a
Fiume per sospetta attività antifascista. Non so perché, suppongo per
orgoglio, dichiarai subito d’essere ebreo e così mi mandarono ad
Auschwitz. Non si può capire il mio caso se non si capisce la mia
esperienza di Auschwitz, perché… Ecco: sui campi di sterminio è stato
scritto moltissimo, però a me sembra che non sia mai stato scritto
l’essenziale. E l’essenziale è che, cinque minuti dopo essere entrato nel
campo, uno perdeva la sua essenza umana. La fame, la morte, il terrore
non erano cose importanti. La morte ad esempio era una liberazione, un
sollievo. Non ci faceva e etto ed era così facile suicidarsi. Bastava
attaccarsi ai li elettrici e prendere la scarica. Al mattino ci staccavano e
ci buttavan nel forno. Oppure bastava dire non-ce-la-faccio-più e
rinunciare all’istinto di sopravvivenza: una settimana dopo eravamo
morti. Oppure bastava stendersi sulla neve durante i trasferimenti da
campo a campo: c’era una neve so ce, fresca, invitante, ti ci stendevi
come su un letto e dopo un poco qualcuno ti sparava un colpo alla
tempia. Sì, la morte era normale. Vivere non era normale. Di qui la nostra
abulia, la nostra assenza di umanità, di pietà l’uno per l’altro. Un
esempio: nel mio gruppo c’erano tre amici di Fiume: il padre, farmacista,