Page 191 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Vivere in Israele




             Durante i viaggi che feci in Israele per intervistar Golda Meir cercai di
          conoscere un paio di kibbutz e il caso mi condusse in uno che si chiama

          Nezer Sereni, presso Tel
             Aviv, poi in un altro che si chiama Sde Eliahu, presso la frontiera con la
          Giordania. Sia nel primo che nel secondo v’erano alcuni italiani e, come
          mi sembrò naturale dal momento che sono italiana, venni accolta da loro.

          Non era mia intenzione, in quei giorni, scrivere su di loro. Tutto ciò che
          volevo  era  capire  cosa  fosse  un  kibbutz  per  parlarne  meglio  con  Golda
          Meir  che  nel  kibbutz  aveva  vissuto  e  al  kibbutz  tornava  sempre  col
          rimpianto. Tuttavia, quando mi trovai a contatto con questi italiani, l’idea

          di ascoltarli mi solleticò. Anzi mi sedusse. È necessario, si dice, capire noi
          stessi. Allora perché non tentar di capirci attraverso coloro che andarono
          via?  E  col  magnetofono  in  mano  ne  intervistai  una  dozzina:  incluso  un
          non-ebreo  che  era  giunto  lì  nel  1968,  in  cerca  di  se  stesso.  Non  che  mi

          fosse  chiaro  a  cosa  m’avrebbe  condotto  tale  curiosità:  super cialmente
          essi  non  avevano  nulla  in  comune  fuorché  il  fatto  d’essere  ebrei  ed  ex-
          borghesi.  Martino  Godelli,  per  esempio,  era  nato  a  Trieste  e  un  tempo
          faceva il rappresentante di commercio. Carlo Castelbolognesi era nato a

          Ferrara, dove un tempo studiava per diventare medico. Marcello Savaldi
          era  un  milanese  che  lavorava  nelle  assicurazioni.  Giovannino  Di  Castro
          era un romano che sarebbe diventato ingegnere se non fosse approdato al
          kibbutz. E ciascuno era venuto in epoche diverse, senza conoscere gli altri

          con cui avrebbe diviso il futuro. Ma, come il gruppo che per caso si trova
          sul  ponte  di  San  Luis  Rey,  prima  che  il  ponte  si  rompa  e  li  scagli  giù
          nell’abisso,  tutti  eran  legati  da  invisibili   li  e  ai  miei  occhi  assunsero
          un’identità che ne riassumeva il destino. Sicché decisi di metter da parte

          quei nastri: forse per darli così, come li do ora.
             Ciò che segue, dunque, non è e non vuol essere un saggio sugli ebrei
          italiani che lasciarono il paese dov’erano nati e cresciuti per il paese che
          consideravan la terra dei loro padri. Un compito del genere richiederebbe

          un  libro  che  spiegasse  anche  perché  il  loro  numero  fu  limitato:  appena
          tremila. Ciò che segue è e vuol essere solo la storia di alcuni italiani che la
          coscienza  d’essere  ebrei  indusse  a  recarsi  in  un  deserto  che  non  aveva
          nulla  da  o rire  fuorché  sacri ci  crudeli,  tragedie,  sogni  considerati

          assurdi.  La  maggior  parte  degli  ebrei  che  fuggirono  in  seguito  alle
          persecuzioni  razziali  scelsero  gli  Stati  Uniti,  l’America  del  Sud.  Loro  no.
          Loro scelsero la Palestina. E comunque è il caso di sottolineare che i primi
          partirono  all’inizio  degli  anni  Trenta,  cioè  prima  delle  persecuzioni
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