Page 192 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
P. 192
razziali, e molti partirono dopo la Seconda guerra mondiale, cioè quando
le persecuzioni razziali erano ormai nite. In quel periodo, niente e
nessuno li obbligava a scappare. Non vivevano mica nei ghetti: vivevano
in belle case, mischiati agli ariani. L’Italia li aveva assimilati da ogni
punto di vista: culturale, sociale, estetico, sentimentale, linguistico. I loro
nonni, spesso, avevan combattuto con Garibaldi. I loro fratelli, spesso,
facevano parte della Resistenza e militavano nel Partito d’azione o
comunista o socialista o liberale. L’esempio di una scelta diversa era
venuto loro da uomini come Carlo e Nello Rosselli. Il paese cui
appartenevan da secoli li amava, ed essi lo amavano. Eppure vollero
strapparselo di dosso come ci si strappa la pelle. E insieme a questa pelle
gettaron via gli agi, i morbidi letti, le carriere, il denaro, e se ne andarono
a lavorare di vanga nel kibbutz, tra le vipere, la malaria, i serpenti, la
fatica, la fame, le fucilate degli arabi. Se ne andarono a fare i contadini:
con le loro mani lisce, le loro unghie curate, la loro pelle delicata, i loro
libri in greco e in latino. Perché? Cosa li indusse a intraprendere
un’avventura certamente eroica ma anche masochista? Una fede appena
scoperta, o inventata, che ha nome sionismo. E un mistico,
intellettualistico amore per il socialismo. Due cose di cui essi facevano una
cosa sola, nella convinzione che essere ebrei e restituire una patria agli
ebrei signi casse ricostruire un proletariato. Enzo Sereni, giovanotto di
cultura e di genio, aveva propagandato l’idea e dato l’esempio partendo
nel 1927. Così, più che in cerca di Israele, essi andavano in cerca del
kibbutz: una comunità ugualitaria dove non si possiede nulla fuorché il
lavoro manuale, e tutti vivono insieme con gli stessi diritti e gli stessi
doveri, tutti mangiano il medesimo cibo alla medesima tavola, tutti
abitano in identiche case con identici bisogni. Impresa ardua per un
italiano. Per no un ebreo italiano. Infatti non vi si adattarono mai. E per
quanto oggi le loro mani sian ruvide, le loro unghie sciupate, la loro pelle
abbronzata come si conviene a veri contadini, per quanto oggi tentino di
convincere chi li ascolta e se stessi che sono esclusivamente israeliani, non
scordarono mai d’essere italiani. Non dimenticarono mai la lingua
italiana: non impararon mai bene l’ebraico. Non rinunciarono mai alla
cultura italiana: non penetrarono mai quella ebraica. Non smisero mai di
preferire la pastasciutta e il ca è, di seguire le partite di calcio, di
appassionarsi alle notizie che vengon da Roma e Firenze e Torino e
Ferrara. Soprattutto non persero mai la nostalgia dei palazzi, delle strade,
delle opere d’arte, del paesaggio in cui s’eran formati. E mantennero
sempre un agonizzante dualismo che solo i loro gli potranno cancellare.
Sì, in ogni senso queste sono le storie di dieci italiani. L’undicesimo e cioè
il tipo di Brescia che ri uta la circoncisione perché non nacque ebreo, è in