Page 195 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Auschwitz era una chimera assurda.
Cantavamo sempre in tedesco: «Unsre Heimat ist in den Kaminen. La
nostra patria è il camino». Questione di un giorno, di un mese, sei mesi: la
ne di ognuno era il forno crematorio. Quando ci riunivano in gruppi di
cinquanta o di cento e ci denudavano per mandarci alle docce, sapevamo
benissimo che le docce erano le camere a gas. I bambini no a dodici anni
ci andavano direttamente insieme alla mamma, appena arrivati. Uno dei
compiti che mi ero assunto era strappare i bambini dalle braccia delle
mamme giovani per consegnarli alle vecchie: così i bambini andavano a
morire insieme alle vecchie e si salvavano almeno le mamme giovani. Era
un compito di cile perché, quando vedevano questo estraneo con la tuta
a righe che strappava loro il bambino, le mamme si mettevano a gridar
come pazze. E piombavano le SS e mi prendevano a bastonate. Però
almeno quella cosa l’ho fatta. Pensi che a un certo punto arrivavano
anche diecimila o quindicimila persone al giorno e i forni crematori non
bastavano più.
Così i tedeschi avevano fatto una fossa enorme, di trenta metri per
dieci, e nella fossa c’era un fuoco sempre acceso, e in questo fuoco
buttavano i bambini piccoli. C’era sempre un tale puzzo di carne bruciata.
Ce l’avevamo nella bocca, nel naso, nella pelle: era parte essenziale della
nostra vita. In parte, lo è ancora oggi. Ogni volta che brucian qualcosa,
qui nel kibbutz, io e Gisella ci sentiamo male perché ci sembra che stiano
bruciando i bambini.
Anche Gisella fu ad Auschwitz, per ben diciotto mesi. Ci arrivò insieme
alla madre e alle sorelle: tutte e quattro erano state vendute a Chiasso da
un gruppo di italiani che trasportavano o ngevano di trasportare gli
ebrei al con ne con la Svizzera. Si chiamavano «cuchi» e degli ebrei
avevan fatto un vero commercio: per cinquemila lire a testa li
nascondevano in case sicure e poi li portavano al con ne dove, spesso, li
consegnavano ai tedeschi per riscuoter la taglia. Per pagare i «cuchi» la
madre di Gisella aveva venduto tutti i gioielli ma a Chiasso quei
mascalzoni fuggirono abbandonandole alle guardie di nanza. Queste le
consegnarono alla polizia che le portò a San Vittore e da San Vittore le
mandarono ad Auschwitz. Appena giunte ad Auschwitz, furono divise. La
mamma di Gisella e la sua sorellina di undici anni furono mandate
direttamente al forno. Gisella e la sorella di sedici anni, invece, furono
rasate dalla testa ai piedi e mandate al lavoro. Quando Gisella cercò la
madre e la sorellina, una donna della baracca le indicò il fumo bianco che
usciva dal forno: «Vedi quel fumo? È tua madre e la tua sorellina». Dice
Gisella: «Non so cosa provai. Non ricordo.
Però ricordo che non piansi. Forse non pensai nulla. O forse pensai