Page 208 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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virtù  dell’automobile,  dello  stipendio  alto,  della  casa  bella:  non  voleva
          capire che a far questa vita ero diventato sereno e contento. Non voleva

          capire  che  qui  non  mi  sentivo  più  solo,  né  confuso,  né  oppresso  da
          qualcosa che non sapevo cosa. Glielo ripetei in mille modi. Gli spiegai che
          a Palazzolo, a Milano, a Torino mi mancava il respiro. Mi sentivo sempre
          triste, ombroso. Perdevo il mio tempo come andare al cinematografo la
          mattina e a puttane la sera. Qui invece avvertivo una specie di gaiezza, di

          libertà:  respiravo  insomma.  Non  mi  credette.  Mi  salutò  come  si  saluta
          qualcuno che non ha il cervello a posto. Oddio, non che sia stato molto
          facile:  anche  per  me.  All’inizio,  ammettiamolo,  tante  cose  mi  davan

          fastidio.  Ad  esempio,  il  fatto  di  mangiare  alla  tavola  comune  quel  cibo
          per do. Nei primi giorni era per do. È cattivo anche ora, ma nei primi
          giorni… Gesù! Passava la ragazza col mestolo e paf! Ti gettava sul piatto
          di  alluminio  una  roba  che  ti  chiudeva  gli  occhi,  la  gola.  Mentre  tutti  ti
          guardavano, parlando fra loro in ebraico, e nessuno ti sedeva accanto. Io

          inghiottivo quella porcheria e mi angosciavo: «Perché mi guardano?
             Perché non mi siedono accanto? Cosa dicono? Gli sto antipatico perché
          non  sono  ebreo?».  Il  sospetto  che  fossero  più  imbarazzati  di  me  e

          tentassero  di  mettermi  a  mio  agio  lasciandomi  solo  con  Franco  non  mi
          s orava nemmeno. Sono stati talmente gentili con me. Anziché mettermi
          a lavorare nei campi mi hanno messo a lavorare nella serra, a trasportare
          secchi  di  terriccio.  Un  mestiere  stupido,  sì,  ma  non  faticoso.  M’è  parso
          gentile.  E  poi  mi  hanno  dato  una  stanza  dove  potevo  fare  quel  che  mi

          piaceva:  per no  portarci  le  ragazze.  Mi  ha  scioccato.  Mi  ha  commosso.
          E… Bè, devo dire una verità: mi son trovato subito bene anche per questo,
          per le ragazze. La vita sessuale qui è così libera, pura. Semplice e pura. In

          Italia mi avevano dato un mucchio di complessi: «Non si fa, non sta bene,
          è  peccato».  In  Italia,  per  far  la  corte  a  una  ragazza,  dovevo  almeno
          portarla  al  cinematografo  e  aver  l’automobile.  L’amore  si  faceva
          nell’automobile.  Qui  no.  Qui,  se  una  mi  piaceva,  glielo  dicevo.  E  se  io
          piacevo  a  lei,  lei  lo  diceva  a  me.  E  si  andava  a  letto  insieme:  senza

          nasconderci  e  senza  provare  vergogna.  Ogni  ragazza,  dopo  i  quindici
          anni, ha la sua cameretta e può farci ciò che vuole. Come mia moglie Idith
          prima che ci sposassimo. Mia moglie, intendiamoci, non è stata la prima:

          quando sono arrivato, lei era in America. Però dopo è tornata e, appena
          l’ho vista mi sono buttato a pesce. Era la più bella del kibbutz. Ebbene: ho
          vissuto tre mesi con lei e non è successo nessuno scandalo. Nessuno. Lei
          aveva una camera piccolissima. Ha voluto che mi ci trasferissi coi bagagli
          e io l’ho fatto a malincuore perché avevo paura di suo padre: la mattina

          uscivo come un ladro. C’è voluto un mucchio di tempo perché capissi che
          suo padre lo sapeva e non gliene importava nulla, proprio nulla.
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