Page 211 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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intorno ad Alfonso Paci ci, si formò un minuscolo movimento che diceva
          «bisogna  riconquistare  l’ebraismo».  E  in  tal  movimento  a uiron  coloro

          per  cui  essere  ebrei  non  voleva  dire  recarsi  alla  sinagoga,  bensì
          impiantare una vita ebraica nella Terra di Israele. Enzo Sereni, anzitutto,
          e  poi  noi  di  questo  kibbutz,  poi  altri  che  troverà  a  Tel  Aviv  e  Haifa  e
          Gerusalemme.  Cioè  pochi.  La  maggior  parte  degli  ebrei  italiani,  infatti,
          rimasero fuori del movimento sionista o ne rimasero alla periferia. Pensi

          ai fratelli Rosselli o a Giorgio Bassani e Max Ascoli; gente che spesso ebbe
          il  fegato  di  buttarsi  nella  Resistenza  e  morirci,  tuttavia  non  ebbe  il
          coraggio di rinunciare al proprio italianismo e venire qui. Lo dico senza

          condanna e senza amarezza. Il dilemma era drammatico: toccò anche noi.
          Non  dimenticherò  mai  un  giorno  del  1937  quando  io  e  un  mio  amico
          ebreo si diceva: «D’accordo, vogliamo andare nel kibbutz ma c’è la guerra
          in Spagna! Qual è il nostro dovere: la Spagna o il kibbutz?».
             Gli altri ebrei scuotevan la testa: «Che vi importa della Spagna? Non è

          la vostra guerra!». Io no. Io sapevo che le due scelte eran valide e forse, se
          fossi  stato  meno  giovane,  avrei  votato  per  l’antifascismo.  Votai  per  il
          sionismo  anche  perché  ero  un  ragazzino:  il  massimo  che  potevo  fare

          contro Mussolini era distribuire manifesti antifascisti.
             Mi  attraeva  soprattutto  il  kibbutz  che  vedevo  come  traduzione
          materiale  dell’ideologia  socialista.  Il  gruppo  dei  giovani  sionisti  cui
          appartenevo era un gruppo socialista. E dopo il 1906, cioè dopo l’ondata
          dei  rivoluzionari  russi  sfuggiti  ai  pogrom  dello  zar,  il  kibbutz  aveva

          acquistato  una  coscienza  politica.  Erano  giunti  allora  i  Ben  Gurion,  i
          Ghivat  Brenner,  cioè  gente  con  un’immensa  fede  nel  socialismo  e  una
          totale mancanza di «clericalismo». Pensi che Ghivat Brenner diceva: «Se

          mai  esisterà  uno  Stato  ebraico,  la  prima  cosa  da  fare  sarà  abbattere  il
          Muro del Pianto: non possiamo portarci dietro in eterno questa diaspora
          religiosa».  Nel  kibbutz  avremmo  potuto  diventar  proletari  e  quindi
          ricostruire  il  proletariato  che  nel  popolo  ebreo  era  scomparso.  Per  il
          kibbutz io ero pronto a partire nel 1935, quando avevo diciotto anni.

             Non  lo  feci  perché  mi   danzai  con  colei  che  sarebbe  diventata  mia
          moglie.  Liana  Polacco,  e  il  mio  futuro  suocero  non  ammetteva  che  mi
          sposassi o partissi prima di ottenere la laurea. Si convinse solo quando la

          minaccia  delle  leggi  razziali  divenne  evidente,  però  pretendeva  che
          scegliessi  l’Argentina.  Molti  ebrei  scappavano  già  in  Argentina  e  lui
          brontolava: «Starete proprio bene a Buenos Aires, che senso ha recarsi in
          questa  Herez  Israel?».  Per  non  farlo  arrabbiare,  Liana  mise  in  atto  un
          piano: sarebbe venuta per prima a trascorrervi un periodo di prova, e, se

          non  le  fosse  piaciuto,  avremmo  scelto  l’Argentina.  Partì  da  Trieste,  io
          rimasi a Milano per prender la laurea e…
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