Page 206 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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parso il Pisciatello. È per tutti così, mi creda. Anche se non glielo dicono
Artom, per esempio, non fa che rimpiangere le Alpi e l’eleganza di
Torino. Io non fo che invocare i monumenti di Firenze… Sì, qui c’è
Gerusalemme. Sono abbastanza innamorato della città vecchia, delle sue
mura: mi ricordano un poco Firenze. Ma non sono Firenze, e
Gerusalemme mi dà un conforto che non basta mai. La vita non è fatta
solo di doveri, di nobili sogni. È fatta anche di piaceri. E il solo compenso
per l’assenza di certi piaceri è illuderci d’avere una missione. Ogni volta
che certi rimpianti mi assalgono, io mi indurisco e dico: «Non devo
pensarci, è passato, nito. Non devi rimpiangere il buongusto, le
comodità. Devi costruire il futuro dei tuoi gli». Ho quattro gli, ormai
completamente israeliani. Uno che s’è sposato la settimana scorsa, uno
che fa il militare, una bambina di dodici e una di tre.
Eppure non voglio tornare in Italia. Ci tornai solo nel 1953, per la
morte di mia madre, e dopo pochi giorni scappai: neanche avessi paura di
a rontare qualcosa che non doveva appartenermi più e che tuttavia mi
apparteneva ancora. Non voglio rivedere quei monumenti tentatori, non
voglio rivedere i miei amici di allora, i miei compagni del Partito
d’azione, della Resistenza. Sarebbe troppo doloroso scoprirli con la pancia
e una mentalità cambiata. Voglio ricordarli come li ho conosciuti durante
la Resistenza, perché quella è l’Italia che amo. L’Italia buona, civile. E se
fosse cambiata…
Preferisco pensare che non sia cambiata. Ho tanta paura di scoprire che
il popolo italiano non è più il popolo più buono e civile del mondo. Ed
anche per questa paura, soprattutto per questa paura, non tornerò mai
più.
BRUNO SORINO
Sono venuto qui quattro anni fa: e qui respiro, nalmente. No, non sono
ebreo
La mia storia è particolare perché io non sono ebreo. Sono di Palazzolo,
vicino a Brescia, e in Israele ci venni per caso: quattro anni fa. Abitavo a
Milano, nel ’68. Davo ripetizioni ai bambini della contessa de Robilant. E
facevo il ribelle: era il periodo dei moti studenteschi. Oh, non che andassi
a mettere le bombe o roba del genere. Però avevo voglia di farlo perché
mi sentivo solo, scontento, spaesato: cercavo ideali senza averne. Proprio
ciò che accade agli studenti che vanno a mettere le bombe: la povertà
interiore rende violenti, almeno nelle intenzioni. Poi, un giorno del 1968,
a casa della contessa de Robilant, udii l’ambasciatore israeliano che
parlava del kibbutz.