Page 172 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Parla l’atleta sfuggito agli arabi


             Questa  è  la  testimonianza  di  Gadi  Zabari,  il  lottatore  che  riuscì  a
          fuggire  dal  gruppo  di  sette  israeliani  catturati  dai  terroristi  arabi  nella
          stanza  numero  Tre.  È  l’unica  testimonianza  che  egli  abbia  o erto,  per
          intero,  a  un  giornalista.  Infatti,   no  a  oggi,  s’era  sempre  ri utato  di
          parlare con la stampa. Gadi Zabari ha ventinove anni. Fa il linotipista di

          notte  e  il  fattorino  di  giorno.  La  sua  famiglia  viene  dallo  Yemen:  ne
          emigrò circa quaranta anni fa. Vive nel quartiere più povero di Tel Aviv e
          per  questo  non  volle  che  andassi  a  cercarlo  a  casa:  fu  lui  che  venne  a

          trovarmi,  in  casa  di  un  amico.  La  conversazione  si  svolse  in  ebraico,
          attraverso  l’amico  che  faceva  da  interprete.  Zabari  parlava  a  scatti,  in
          modo spesso incerto e confuso. Un po’ perché il suo modo di esprimersi è
          assai limitato, direi elementare.
             Dormivamo sodo perché la sera avanti avevamo fatto tardi, mi spiego?

          Eravamo andati a teatro per vedere quel musical che si chiama Il violinista
          sul tetto. Ci eravamo andati tutti insieme fuorché Moshe Weinberg che era
          andato in un altro posto con un amico suo. E ci eravamo divertiti, anche

          se gli attori cantavano sempre in tedesco. Io non so il tedesco e non ho
          capito cosa volesse questo violinista sul tetto. Ci erano piaciuti i costumi,
          e ci erano piaciute le  gure, e le danze, e si era tornati all’una di notte
          per addormentarci subito, io dormivo nella stessa camera di David Berger,
          sai  l’ingegnere  sollevatore  di  pesi.  La  nostra  camera  faceva  parte  della

          stanza numero Tre, quella dov’è successo il disastro. In quella adiacente
          dormivano Slavine e Hal n. In quella di sotto, Romano e Friedman. Cosa
          ricordo? Ricordo uno scoppio e basta. Ma forse non era uno scoppio, era

          uno sparo. C’è stato questo scoppio, o questo sparo, e mi sono svegliato e
          ho chiamato Berger: «Ehi, David. Hai sentito. David?». Però senza darci
          importanza.  Voglio  dire:  non  ho  pensato  a  un  attacco.  Non  c’era  mai
          successo nulla, nemmeno una minaccia, nulla. Berger ha aperto gli occhi e
          ha mosso le labbra per dire qualcosa ma non ha fatto in tempo a dir nulla

          perché  nello  stesso  momento  qualcuno  ha  suonato  il  campanello  della
          nostra porta. E io mi sono alzato. Mi sono in lato i pantaloni, alla svelta,
          e sono andato ad aprire la porta. Scalzo, senza camicia. Coi pantaloni e

          basta.  Ho  aperto  la  porta  e  ho  visto  un  uomo,  di  spalle.  Mi  volgeva  le
          spalle perché guardava verso Hal n e Slavine che stavano appoggiati al
          muro: mezzi nudi anche loro. E poi quest’uomo s’è girato. S’è girato ed era
          un arabo che mi puntava addosso il fucile. Dico un arabo perché ho capito
          subito  che  si  trattava  di  un  arabo.  Mi  spiego?  Aveva  i  lineamenti

          dell’arabo. E mi puntava addosso il fucile.
             Sì che posso descriverlo. Potrei riconoscerlo tra mille, anche morto. Mi
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