Page 167 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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lasciarono  cogliere  dalla  sorpresa  e  non  opposero  alcuna  resistenza.
          Neutralizzati dai fucili automatici, si lasciarono per no portare dabbasso,

          nel  sottosuolo,  dove  Zabari  scappò.  Ma  questa  parte  della  storia  gliela
          racconterà meglio Zabari. Fatto sta che, dopo la fuga di Zabari, gli arabi
          compresero  l’inopportunità  di  fermarsi  nel  sottosuolo  e  risalirono  alla
          stanza  numero  Tre,  con  gli  ostaggi  della  numero  Tre  e  con  Weinberg
          ferito alla faccia. Poi vi portarono anche gli ostaggi della stanza numero

          Uno e così ebbero undici persone cui badare. Troppe. Scoppiò una lotta:
          forse sollecitata da Weinberg, forse da Berger, forse da Romano. Erano i
          più coraggiosi. In camera i ragazzi avevano alcuni coltelli.

             Non  i  coltelli  da  caccia,  i  coltelli  per  tagliare  la  frutta.  Però  li
          impugnarono e credo che a questo punto gli arabi si siano difesi con la
          seconda  scarica  di  pallottole:  gli  spari  che  udii  alle  cinque  meno  un
          quarto. Credo che a questo punto sia morto Moshe Weinberg.
             A che punto sia morto Romano, invece, non lo so. Se morì insieme a

          Weinberg,  perché  non  gettarono  via  anche  il  suo  corpo?  Perché
          pensarono che un secondo cadavere avrebbe reso di cili i negoziati? O
          perché pensarono che gli sarebbe servito più tardi?

             Io  ormai  avevo  raggiunto  l’edi cio  centrale.  Però,  nel  corso  della
          mattinata,  tornai  spesso  dinanzi  alla  porta  della  camera  numero  Tre.
          Tenevo  i  contatti  con  Gerusalemme,  attraverso  una  linea  telefonica
          aperta, e volevo controllare coi miei occhi: non mi  davo di ciò che mi
          raccontavano i tedeschi. Ebbene, l’arabo incappucciato era sempre nello

          stesso punto: a gridare, nervoso. E diventava sempre più chiaro che non
          c’erano vie d’uscita. Così ripetevo ai tedeschi: «Inutile perdere tempo in
          negoziati. L’unica cosa da fare è irrompere dentro e attaccarli. Qualcuno

          dei nostri morirà, ma altri si salveranno». E i tedeschi: «No, no, bisogna
          negoziare!». Allora suggerii il gas.
             Irrorandoli  di  gas,  magari  attraverso  i  tubi  dell’aria  condizionata,
          avremmo stordito tutti e saremmo riusciti a irrompere nella numero Tre.
          Un  gioco  da  bambini.  I  tedeschi  non  mi  ascoltarono.  Chiesero  al

          municipio  di  Monaco  la  carta  topogra ca  della  villetta,  chiesero  a  me
          quale fosse la disposizione dei letti nella stanza, e poi non mi ascoltarono.
          Non ascoltavano nulla e nessuno fuorché la loro testardaggine ottusa, il

          loro  ripetere:  «Bisogna  negoziare,  bisogna  negoziare!».  Non  volevano
          rischi,  erano  cauti  come  fanciullette.  E  in  tale  cautela  accettarono  le
          condizioni  degli  arabi,  misero  insieme  lo  stupido  piano  che  avrebbe
          condotto alla tragedia  nale. Lo misero insieme loro, da soli. Non è vero
          che  gli  israeliani  fossero  d’accordo.  Non  è  vero  che  da  Gerusalemme

          fossero giunti alcuni esperti israeliani per concordare l’azione. Sono stato
          lì tutto il tempo e non ho visto un solo israeliano, escluso l’ambasciatore
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