Page 163 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
P. 163
i suoi camerati avrebbero ucciso gli ostaggi. Se non ci credevano, poteva
dimostrarlo: c’era un cadavere da buttar fuori. Lo aveva appena detto che
un cadavere fu buttato fuori.
Così, come un sacco di cenci. Sul marciapiede. Ed era il cadavere di
Moshe Weinberg, l’allenatore. Tutto coperto di sangue. Sangue sulla
faccia, sul torace, sul ventre.
L’avevano colpito dappertutto, straziato. Per un attimo, quando lo vidi,
persi quasi la calma. Ma subito la ritrovai e mi dissi: «Ecco il primo». Poi
mi dissi: «Gli altri li terranno vivi per un poco, poi li ammazzeranno come
lui. Li ammazzeranno tutti, non li salveremo mai. Non siamo in Israele,
siamo in Germania». No, non avevo speranza, non avevo ottimismo. Dal
momento in cui ho visto il cadavere di Moshe, non c’è stato un lo di
ottimismo in me. Non mi sono mai fatto illusioni. Mi son sempre detto:
«Siamo in Germania. Può nir male e basta». E quando arrivò
l’ambulanza… Venne l’ambulanza e ne uscirono due infermieri con la
barella. Posarono il corpo di Moshe sulla barella e poi gli auscultarono il
cuore per vedere se battesse ancora. Ma non batteva più, così alzarono le
braccia al cielo nel gesto di dire: «Sì, è proprio morto». E lo portarono via.
L’arabo intanto gridava. Aveva perso la sua compostezza e gridava:
«Li ammazzeremo tutti se non verranno accettate le nostre richieste.
Allo scadere di ogni ora ne ammazzeremo uno!». Il poliziotto sembrava
non crederci. Infatti se ne andò e tornò con una poliziotta ma anche lei
sembrava non crederci. L’unico che ci credeva ero io. Non solo perché
sapevo che Moshe era stato ammazzato per dimostrazione, ma perché
conosco la mia gente e sapevo che a Gerusalemme non avrebbero mai
ceduto al ricatto. Mai. È una legge che ci siamo imposta, che non
infrangeremo mai. E, quando non ottengono ciò che vogliono,
ammazzano. Sì che volevano me, anche me. Su ciò non avevo dubbi e del
resto me lo avrebbe confermato, più tardi, Sokolski: uno dei due che è
riuscito a scappare. Giungendo alla stanza numero Uno gli arabi avevano
chiesto:
«Dov’è il capo della delegazione?». Ma io dovevo occuparmi di Stroch,
di Hershkowicz, di Jeuda Weinstein, Dan Alon: il gruppo che non si
decideva a lasciare la stanza numero Due perché per farlo doveva passare
dinanzi alla numero Tre dove c’erano gli arabi. Si decisero, nalmente,
verso le cinque e mezzo dopo essersi accorti che le tende della numero Tre
erano abbassate. Poiché la loro stanza era al primo piano come la mia,
percorsero il ballatoio in un lampo e piombarono in camera mia.
Sconvolti. Io li cacciai: «Via! Via!». Volevano dirigersi verso le stanze
degli uruguayani, adiacenti alla mia, però li feci saltare giù dalla nestra
perché mi parve più sicuro.