Page 162 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Dopo quindici minuti gli spari ripresero. E io saltai di nuovo dal letto e di
          nuovo corsi alla finestra.

             Dalla  nestra della camera numero Due s’erano a acciati anche Zelich
          Stroch e Henry Hershkowicz, due dei nostri atleti che partecipavano alle
          gare di tiro. Zelich mi chiese:
             «Lalkin, che accade?». E io risposi non so, non ho visto nulla. Poi arrivò
          un poliziotto di corsa, una Giacca Azzurra con il walkie-talkie e basta, e

          mi chiese: «Ha visto qualcosa?». E io risposi no, non ho visto nulla. E poi,
          poi  d’un  tratto  vidi  quell’arabo  dinanzi  alla  porta  della  stanza  numero
          Tre. Indossava la tuta sportiva, e in testa aveva un casco come i caschi dei

          boy-scouts, e la faccia l’aveva coperta da una maschera con due buchi per
          gli occhi, e imbracciava un fucile automatico tenendo il dito sul grilletto.
             Allora capii tutto e dissi: «This is it. Ci siamo». Era dall’inizio dei giochi
          che mi attendevo qualcosa. Non mi ero mai fatto illusioni di arrivare in
          fondo senza che succedesse qualcosa. No, lì per lì non pensai a scappare.

          Ho  quarantasette  anni,  e  sono  stato  in  tre  guerre,  la  guerra  del  ’48,  la
          guerra del ’50, la guerra del ’67, sono stato anche nella Resistenza contro
          gli  inglesi,  e  due  anni  in  prigione  per  sabotaggio,  e  mi  intendo  di

          guerriglia e dinanzi a un arabo col mitra divento assolutamente calmo.
             Conosco gli arabi. Un arabo parte sempre con l’idea di prendere tempo,
          di negoziare.
             Con calma feci un calcolo: la stanza numero Tre è perduta, forse anche
          la  stanza  numero  Uno  è  perduta,  bisogna  mettere  in  salvo  i  compagni

          della numero Due e della numero Quattro. Con calma mi rivolsi a Stroch e
          a  Hershkowicz  che  stavano  ancora  alla   nestra,  paralizzati,  e  ordinai:
          «Via dalla  nestra! Via dalla stanza! Correte verso la numero Cinque!».

          Poi scesi al piano di sotto per telefonare ai medici della numero Quattro e
          ai  giornalisti  della  sala  stampa.  Avevamo  più  di  mille  ebrei  alle
          Olimpiadi,  avevamo  per no  un  campo  di  ragazzini,  e  probabilmente
          l’attacco degli arabi non si limitava ai nostri alloggi. Era necessario che i
          giornalisti  dessero  l’allarme.  No,  alla  stanza  numero  Tre  non  telefonai.

          Sarebbe  stato  come  avvertire  gli  arabi  che  c’era  ancora  qualcuno  da
          catturare.  Non  telefonai  nemmeno  alla  stanza  numero  Uno.  A  parte  il
          fatto che questa non aveva telefono, m’ero ormai convinto che gli arabi

          l’avessero in pugno. Era la stanza più indifesa perché era all’angolo della
          casa  e  conteneva  una  scala  a  chiocciola  diretta  al  sottosuolo:  perfetta
          come via d’uscita. Al posto di un arabo, io avrei incominciato dalla stanza
          numero  Uno.  Fatte  le  telefonate  tornai  alla   nestra:  l’arabo  era  ancora
          dinanzi  alla  porta  della  numero  Tre.  Giovane,  piccolo,  magro.  E  sicuro.

          Parlava  col  poliziotto  in  tedesco,  ottimo  tedesco,  e  diceva  che  se  entro
          mezzogiorno Israele non avesse liberato duecento prigionieri politici lui e
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