Page 164 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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I due medici della numero Quattro, invece, scapparono molto più tardi:
          verso le nove. Non capirò mai perché. Io scappai prima di loro, dopo aver

          capito  che  indugiavano  troppo.  Scappai  da  solo,  saltando  dalla   nestra
          come avevo fatto fare agli altri. Non fu di cile, no. L’unico rischio era
          venir  raggiunto  da  una  fucilata  giacché  potevano  aver  visto  passare  le
          ombre  di  Stroch,  Hershkowicz,  Weinstein,  Dan  Alon,  e,  se  le  avevano
          viste, non eran certo disposti a farsi be are una seconda volta. Ma non

          avevo scelta. Saltai. Saltai e corsi, corsi.
             Certo che avevo paura mentre correvo. Non conosco nessuno che possa
          permettersi il lusso di non avere paura in tali circostanze. Eccetto, forse,

          Moshe  Dayan.  Ma  più  che  paura,  e  può  crederci  o  no,  era  dolore.  O
          disagio?  Sentivo  addosso  come  un  disagio.  Lo  stesso  che  avverti,  alla
          guerra, quando un compagno muore e tu corri al riparo.
             Pensavo: «Se riesco a fare quei dieci metri, quei venti metri, son salvo»
          e,  allo  stesso  tempo,  vedevo  i  volti  dei  miei  compagni  condannati  a

          morte.  Tutti  e  tredici.  Dico  tredici  perché  in  quel  momento  credevo  che
          fossero tredici: ignoravo che Gadi Zabari e Tuviah Sokolski eran riusciti a
          fuggire.  Con  alcuni  di  loro  ero  stato  in  combattimento  nel  1967,  di

          ciascuno conoscevo la vita e la storia perché da dieci anni sono presidente
          della Federazione sportiva israeliana e… Oddio, mi lasci spiegare. Voglio
          dire: come atleti non erano eccezionali, anzi erano abbastanza mediocri.
          Ma come uomini valevano molto. E gli volevo bene. Joseph Romano, ad
          esempio.  C’era  Joseph  Romano  che  di  mestiere  faceva  il  decoratore.

          Ebbene, i decoratori generalmente son piccoli, magri, non so, delicati. Lui
          invece era una specie di toro e di delicato aveva soltanto le mani, il cuore.
          Era una pasta di zucchero. Era il padre di tre bambine che amava con una

          dolcezza quasi femminile ed era venuto alle Olimpiadi dicendo questa-è-
          l’ultima-volta-che-partecipo-a-una-competizione-sportiva-Basta-con-lo-
          sport-perché-lo-sport-non-mi-lascia-il-tempo-di-occuparmi-delle-bambine.
          Buono, coraggioso.
             E poi c’era Shapiro, l’allenatore, che insegnava all’Istituto di educazione

           sica  e  il  giorno  prima  era  così  felice  perché  una  delle  sue  atlete  era
          entrata nelle  nali dei cento metri: «Perbacco, sono anni che lavoro per
          dimostrare che sono un allenatore in gamba!».

             E poi c’era Berger, un avvocato giunto dagli Stati Uniti quattro anni fa,
          un  uomo  colto  e  ra nato,  un  idealista  vero,  non  uno  di  quegli  ebrei
          americani che in Israele ci vengono solo per fare i turisti. E poi c’era Mark
          Slavine.  E  Slavine  era  il  più  commovente  di  tutti  perché  aveva  solo
          diciotto anni e aveva lasciato la Russia tre mesi fa. Leningrado, mi pare.

          S’era battuto come un leone per lasciare la Russia, diventare israeliano, e
          non  sapeva  una  parola  d’ebraico.  Non  sapeva  nemmeno  l’inglese,
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