Page 152 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Che domanda di cile, imbarazzante. Le ho già detto che non l’ho scelto
io questo mestiere e che, se avessi potuto, forse non l’avrei scelto. Perché,
se essere capo di Stato è una condanna a scadenza limitata, essere re è
una condanna a vita. Però io non devo pormi il problema che mi piaccia
o no, io devo pormi il problema di farlo anche se non mi piace. In
qualsiasi lavoro capitano giorni di stanchezza, di nausea: ma, se
dovessimo cedere a quelli, faremmo come gli spostati che cambiano
continuamente lavoro e niscono col farli tutti male. No, nché il mio
popolo mi vuole, o nché io sono vivo tra un popolo che mi vuole, io non
abbandonerò il mestiere di re. L’ho giurato a me stesso prima che agli
altri. E non solo per una questione d’orgoglio, mi creda, ma perché a
questa mia terra io voglio bene. Abbandonarla per vivere sulla Costa
Azzurra sarebbe una viltà, un tradimento. Che nel mio caso personale ne
valga la pena o no, io resto. Pronto ad a rontare chiunque cerchi di
mandarmi via contro la volontà della mia gente.
Mi aveva promesso quaranta minuti. Ne erano passati quarantacinque.
Guardò l’orologio e disse: «Peccato, dobbiamo interromperci, ho un altro
impegno. Però potremmo rivederci a casa mia: la prossima settimana
torna mia moglie. So che sarebbe felice di offrirle una tazza di tè».
Ci lasciammo con quella promessa, poi esplose la battaglia di El Sifa e
quella tazza di tè non la bevemmo mai. Avrei dovuto attendere troppi
giorni, e volevo partire.
Tuttavia lo vidi una seconda volta, quarantotto ore dopo. Fu durante
una specie di cerimonia che si svolgeva a Salt, la città fra Amman e il
ponte Allenby. Il re doveva parlare ai notabili e alla popolazione. Giunse
sotto la pioggia, vestito da soldato: pantaloni di tela kaki, maglia dello
stesso colore, berretto rosso e pistolone al fianco.
Fradicio e calmo passò tra la folla che lo pressava in una morsa e
raggiunse la sala dei notabili per tenervi il primo discorso. Si avvicinò al
microfono, cominciò a parlare, e subito un corto circuito spense tutte le
luci rendendo il microfono inutile. Certo, un sabotaggio a scopo di be a.
Ed ecco: un altro avrebbe smesso di parlare, avrebbe aspettato. Lui invece
no. Quasi al buio e senza alzare neanche un poco la voce, continuò
imperterrito a dire quel che aveva da dire: uscendone con la sua dignità
intatta. Poi andò a una nestra e si rivolse alla folla. La folla sembrava
impazzita d’amore, urlava un unico urlo: «Hussein, Hussein! Che Allah
protegga il nostro re, il nostro Hussein». Io gli stavo accanto: vidi la sua
bocca tremare e i suoi occhi riempirsi di lacrime. E poi udii quelle lacrime
annacquar la sua voce: no, un uomo non piange se non ci crede.
Hussein crede davvero a quello che fa, giusto o sbagliato che sia. Ama