Page 62 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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disumano per indurle a obbedire. Mi sono vestita e ho udito la

        mia voce che chiedeva cosa avrei dovuto fare, un’altra voce che
        rispondeva: «Niente. Lui starà lì ancora per un poco. Dopo se ne

        andrà spontaneamente». Ho annuito.

           Allora l’altra voce ha ammucchiato frasi su frasi, un incessante
        ronzio che mi pregava di non avvilirmi, molti bambini se ne van-

        no perché non sono perfetti, non sono formati bene, chi vuole
        mettere al mondo un bambino che non è perfetto, non formato

        bene, non dovevo condannarmi, non dovevo rimproverarmi per

        colpe incommesse, la gravidanza è tale quando si svolge con na-
        turalezza, lei era contraria al sistema di coloro che costringono

        una donna a letto per mesi e impediscono alla natura di fare

        il suo corso. Ho pagato. L’ho salutata con un cenno della testa.
        Sono uscita tra due filari di pance gonfie, le pance gonfie si offri-

        vano provocatorie al mio ventre piatto che chiudeva un morto,

        e finalmente il mio cervello ha pensato qualcosa. Ha pensato: “E
        andata come doveva andare. Dunque ci vuole coerenza”. E

           la parola coerenza mi ha accompagnato fino all’albergo, martel-
        lante, ossessiva: coerenza, coerenza, coerenza. Ma quando sono

        entrata nella mia stanza e ho visto la culla, ho visto il carillon,

        le magliette del tuo guardaroba, ho vomitato un gemito lungo.
        E son caduta sul letto, mentre un altro gemito si aggiungeva a

        quel gemito, poi un altro, e un altro ancora, finché dal profondo
        del corpo dove ormai giaci come un pezzettino di carne che non

        conta più nulla è salito un gran pianto, e ha schiantato la pietra

        rompendola in mille pezzetti, sbriciolandola in polvere.
           E ho urlato. E sono svenuta.




           Forse è stato durante il sonno cui mi sono abbandonata dopo
        aver ripreso i sensi. O forse è stato durante il delirio. Comunque

        è avvenuto: me ne ricordo con lucidità.

           C’era una sala candida, con sette scanni e una gabbia.
           Io ero dentro la gabbia e loro sugli scanni, remoti e irraggiun-

        gibili. Sullo scanno centrale stava il medico che mi curava prima
        del viaggio. Alla sua destra stava la dottoressa, alla sua sinistra il

        commendatore. Accanto al commendatore stava la mia amica e




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