Page 61 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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L’altrui comprensione non mi serviva più e v’era in me la si-

        curezza di partecipare a una cerimonia superflua, segretamente
        attesa, in fondo, e forse voluta. Ero pronta, rassegnata, convinta

        che non avrei reagito perché tutto quello che c’era da dire l’ave-

        vo già detto, tutto quello che c’era da patire l’avevo già patito. Ma
        quando la cerimonia è iniziata ho compreso che non sarei mai

        stata pronta, mai.
           Perfino ascoltare le sue domande mi faceva male, perfino ri-

        spondervi. «Non lo ha mai sentito muovere recentemente?» «No»

        «Si è sentita più pesante, più goffa? « «No».
           «E quando s’è messa in testa l’idea che... sulla strada acciden-

        tata, prima di arrivare al motel. Piuttosto insufficiente per ca-

        varne giudizi. E tocca a me esprimer giudizi, sì o no?» Poi mi ha
        scoperto il ventre, ha notato che in realtà sembrava più piatto di

        prima. Mi ha palpato i seni, ha osservato che in realtà sembrava-

        no meno turgidi di prima. Si è infilata il guanto di gomma, ti ha
        cercato. E la sua fronte s’è corrugata, i suoi occhi si sono rabbu-

        iati mentre diceva: «L’utero ha perso tono. Si presenta avvizzito.
           Lecito sospettare che il bambino non cresca bene, che non cre-

        sca più. Dovremmo fare un esame biologico, aspettare ancora

        qualche giorno. «Poi si è sfilata il guanto, lo ha buttato via. Si è
        appoggiata con entrambe le mani al lettuccio. Mi ha fissato con

        mestizia: «Tanto vale che glielo dica subito. Ha ragione lei. Non
        cresce più. Almeno da due settimane e forse da tre. Si faccia co-

        raggio, è finita. Èmorto».



           Non ho risposto nulla. Non ho fatto un gesto. Non ho battuto

        un ciglio. Sono rimasta lì con un corpo che era pietra e silenzio.

        Anche il cervello era pietra e silenzio.
           Non vi si annidava un pensiero, una parola. L’unica sensazione

        era un peso insopportabile sopra lo stomaco, un piombo invi-

        sibile che mi schiacciava come se il cielo mi fosse precipitato
        addosso: senza far rumore. Nell’immobilità assoluta, nella man-

        canza di suoni assoluta, il suo invito è esploso col fragore di uno
        sparo:  «Coraggio,  si  alzi.  Si  vesta».  Mi  sono  alzata  e  le  gambe

        eran pietra dentro la pietra, bisognava che compissi uno sforzo




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