Page 53 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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tre ore un riposo. Mi ascolti

           ? Sto dicendo che ho fatto la pace con te, siamo amici alla fine!
        Sto dicendo che mi dispiace averti maltrattato, sfidato, e ancora

        di più mi dispiace se resti offeso e non mi tiri colpetti. Non me ne

        hai tirati più, dopo l’ospedale. A
           volte, pensandoci, aggrotto la fronte.



           Dura poco però. Subito dopo ritrovo la tranquillità.

           Intuisci quanto sono cambiata? Dacché ho ripreso la vita di

        sempre, mi sembra d’essere un’altra: un gabbiano che vola. Dav-
        vero ci fu un momento in cui desideravo la morte? Pazza. E così

        bella la vita, la luce. Sono così belli gli alberi e la terra e il mare.

        C’è molto mare qui: te ne arriva il profumo, il fragore? E bello
        anche lavorare se dentro di te guizza una gioia: mentivo a soste-

        nere che in ogni caso il lavoro stanca e umilia. Devi scusarmi: la

        collera, L’ansia, mi facevano veder tutto buio. E a proposito del
        buio: è sorta di nuovo in me l’impazienza di tirartene fuori. Con

        essa, il timore di averti scoraggiato attraverso le chiacchiere sul-
        la libertà che non esiste, sulla solitudine che è l’unica condizione

        possibile. Dimentica quelle sciocchezze: stare gomito a gomito

        serve. La vita è una comunità per darci la mano, consolarci, aiu-
        tarci. Anche le piante fioriscono meglio una accanto all’altra, e gli

        uccelli migrano a gruppi, i pesci nuotano a branchi. Che faremmo
        soli? Ci sentiremmo come astronauti sulla Luna, soffocati dalla

        paura e dalla fretta di tornare indietro.

           Sbrigati, trascorri alla svelta i mesi che ti rimangono, affacciati
        senza timore di vedere il sole. Lì per lì ti abbaglierà, ti spaven-

        terà, ma presto diverrà un’allegria di cui non potrai fare a meno.

        Mi pento d’averti fornito sempre gli esempi più brutti, di non
        averti mai raccontato lo splendore di un’alba, la dolcezza di un

        bacio, il profumo di un cibo. Mi pento di non averti fatto ridere

        mai.  Se  tu  mi  giudicassi  dalle  fiabe  che  narravo,  saresti  auto-
        rizzato a concludere che io sono una specie di Elettra sempre

        vestita di nero. D’ora innanzi devi immaginarmi come un Peter
        Pan sempre vestito di giallo di verde di rosso e sempre intento

        a stendere nastri di fiori sui tetti, sui campanili, sulle nuvole che




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