Page 44 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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estraneo, capisci, e s’era messo fra noi ed era come se ci aves-

        se imposto un mobile di cui non si ha bisogno, anzi ingombra la
        stanza togliendo luce, rubando aria, facendo inciampare. Forse,

        se fosse stato con noi fin dall’inizio, ora la sua presenza ci sa-

        rebbe sembrata normale e perfin necessaria: non avremmo po-
        tuto concepire altro modo di prepararci al tuo arrivo. Ma vederlo

        piombare così, all’improvviso, con l’inopportunità dell’intruso
        che entra nel ristorante dove stai mangiando insieme a qualcu-

        no con Cui vuoi stare sola, l’indiscrezione dell’intruso che siede

        al tuo tavolo sebbene tu non l’abbia invitato né incoraggiato, era
        quasi offensivo. Avrei voluto dirgli: “Vattene via, per favore. Non

        abbiamo bisogno né di te, né di Giuseppe, né del Signore Iddio.

        Non ci serve un padre, non ci serve un marito, tu sei di troppo”.
           Ma non potevo. Forse mi frenava la timidezza di chi non sa cac-

        ciare chi siede al tuo tavolo senza domandare permesso.

           Forse mi frenava una pietà che a poco a poco diventava com-
        prensione, rimpianto. Al di là delle sue debolezze, delle sue vil-

        tà, chissà quanto s’era tormentato veramente, anche lui. Chissà
        quanto gli era costato tacere, imporsi di venire con un brutto

        mazzo di fiori. Non si nasce per partenogenesi, la stilla di luce

        che aveva bucato l’uovo era sua, metà del nucleo che aveva dato
        l’avvio al tuo corpo era suo. E il fatto ch’io me ne dimenticassi era

        il prezzo che pagavamo per l’unica legge che nessuno ammette:
        un uomo e una donna si incontrano, si piacciono, si desiderano,

        forse si amano, e dopo un certo tempo non si amano più, non

        si desiderano più, non si piacciono più, magari vorrebbero non
        essersi mai incontrati. Ho trovato ciò che cercavo, bambino: tra

        un uomo e una donna ciò che chiamano amore è una stagione. E

        se al suo sbocciare questa stagione è una festa di verde, al suo
        appassire è solo un mucchio di foglie marce.




           Gli ho lasciato preparare la cena. Gli ho lasciato aprire quella
        assurda bottiglia di champagne. (Dove l’aveva nascosta, entran-

        do?) Gli ho lasciato fare un bagno. (Fischiettava, nel bagno, come
        se tutto fosse sistemato.) E gli ho permesso di dormire qui, nel

        nostro letto. Ma appena se ne è andato, stamani, ho provato una




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