Page 43 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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rotto per esclamare: «Tanto non ce l’hai mica tu dentro il corpo,

        non devi mica portarlo tu dentro il corpo per nove mesi. E lui ha
        spalancato la bocca, sorpreso: Credevo che tu lo volessi, che tu

        lo facessi volentieri.



           Allora è successa una cosa che non capisco: mi son messa a

        piangere io. Non avevo mai pianto, lo sai, e non volevo piangere:
        perché mi umiliava, perché mi imbruttiva.

           Ma più respingevo le lacrime più esse sgorgavano: quasi si fos-

        se rotto qualcosa. Ho provato anche ad accendere una sigaretta.
        Le lacrime hanno bagnato la sigaretta.

           E così tuo padre ha lasciato la sedia, è venuto verso di me e

        mi ha accarezzato la testa: timidamente. Poi ha mormorato «ti
        faccio un caffè» ed è andato in cucina a fare il caffè. Quando è

        tornato, avevo ripreso il controllo di me stessa. Lui no. Reggeva

        la tazzina come se fosse un gioiello, esagerava in premura. Ho
        bevuto il caffè.

           Mi son messa ad aspettare che se ne andasse. Non se n’è an-
        dato. Mi ha chiesto cosa volevo mangiare. E così ho ricordato che

        la mia amica non era venuta, ho capito che lo aveva mandato lei.

        E l’ira si è trasferita su lei, su tutti coloro che credono di aiutarti
        con le leggi del formicaio, il loro arbitrario concetto del giusto e

        dell’ingiusto.
           Maria, Gesù, Giuseppe. Perché Giuseppe? Sta così bene Maria

        col suo bambino e basta. L’unica cosa accettabile, nella leggen-

        da, è proprio quel loro rapporto a due: la meravigliosa bugia di
        un uovo che si riempie per partenogenesi. Che ci fa all’improv-

        viso Giuseppe? A chi serve? Tira l’asino che non vuol cammina-

        re? Taglia il cordone ombelicale e si accerta che la placenta sia
        uscita intera? Oppure salva la reputazione di una screanzata che

        rimase incinta senza marito? Ammenoché non la segua come un

        domestico per farsi perdonare la colpa d’averle chiesto di abor-
        tire. Lo guardavo raccogliere le corolle dei fiori, chino sul pavi-

        mento, e non sentivo nemmeno un po’ di amicizia. S’era infranto
        un equilibrio, al suo ingresso. S’era rotta una simmetria, turbata

        una complicità: quella che esisteva fra me e te. Era giunto un




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