Page 10 - Oriana Fallaci - Lettera a un bambino mai nato
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ora le brutture e le malinconie, raccontarti un mondo di innocen-

        ze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti in un inganno. Sarebbe
        come indurti a credere che la vita è un tappeto morbido sul qua-

        le si può camminare scalzi e non una strada di sassi, bambino.

        Sassi contro cui si inciampa, si cade, ci si ferisce. Sassi contro cui
        bisogna proteggerci con scarpe di ferro. E neanche questo basta

        perché mentre proteggi i piedi, c’è sempre qualcuno che racco-
        glie una pietra per tirartela in testa. E per oggi ho finito, figlio

        mio, figlia mia. La lezione ti è giunta? Chissà che direbbero alcuni

        se mi ascoltassero. Mi accuserebbero d’essere pazza o sempli-
        cemente crudele? Ho guardato la tua ultima fotografia e, a cin-

        que settimane, sei lungo meno di un centimetro. Stai cambiando

        molto. Più che un fiore misterioso ora sembri una graziosissima
        larva, anzi un pesciolino cui spuntano svelte le pinne. Quattro

        pinne che diverranno gambe e braccia. Gli occhi sono già due mi-

        nuscoli granelli neri, con un cerchio intorno, e in fondo al corpo
        hai una codina! La didascalia dice che in questo periodo è quasi

        impossibile distinguerti dall’embrione di un qualsiasi mammi-
        fero: se tu fossi un gatto, appariresti più o meno ciò che sei ora.

        Infatti il volto non c’è. Non c’è nemmeno il cervello. Io ti parlo,

        bambino, e tu non lo sai. Nel buio che t’avvolge ignori addirittura
        d’esistere: potrei buttarti via e non sapresti mai che t’ho buttato

        via. Non avresti modo di concludere mai se ti ho fatto un torto o
        un regalo.




           Ieri ho avuto un cedimento di malumore. Devi scusare il discor-
        so sul fatto che potrei buttarti via e tu non sapresti nemmeno

        se ti ho fatto un torto o un regalo. E un discorso e basta. La mia

        scelta non è affatto mutata anche se, intorno a me, ciò solleva
        sorpresa. Stanotte ho parlato con tuo padre. Gli ho detto che

        c’eri. Gliel’ho detto al telefono perché si trova lontano e, a giudi-

        care da quello che ho udito, non gli ho dato una buona notizia.
        Ho udito, anzitutto, un profondo silenzio: neanche fosse caduta

        la comunicazione. E poi ho udito una voce che balbettava, roca:
        «Quanto ci vorrà? «. Gli ho risposto senza capire:

           «Nove mesi, suppongo. Anzi meno di otto, ormai». E allora la




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