Page 63 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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confortasse, che presto sarebbero venuti in Italia. Orson
raccontava quanto fossero belle le corride, ma nessuno
ascoltava. Nessuno parlava.
Nessuno rideva. La conversazione languiva e Cotten mi
fissava con odio attribuendomene silenziosamente la colpa.
Cominciavo a vergognarmi: l'esperimento era durato fin
troppo. La mia curiosità s'era mutata in perfidia, lo capivo. Ma
allo stesso tempo mi veniva voglia di gridare e di ridere, di
fuggire da quel paradiso di mummie che non avevano nemmeno
il coraggio di bere un po' di vino francese, per il sospetto che lo
annotassi sul mio taccuino terribile.
«Senta» dissi a Orson Welles. «Mi sono fatta invitare. E non
sta bene. Li ho spaventati. E non sta bene. Ma a questo punto
tutto diventa ridicolo. Me ne vado.» E mi alzai inventando una
scusa.
«Vengo anch'io. Non ho mai visto nulla di simile» disse Orson
Welles.
«Evviva» disse Paola Mori agguantando la borsa. Joseph
Cotten mi guardò con sollievo, poi con ira perché gli portavo
via un ospite: tentò di trattenerlo senza trattenermi. Veloce, mi
porse la mano e fu come se avesse lanciato un grido di allarme.
Subito tutti si alzarono e mi dissero che dovevano partire anche
loro perché la sera si addormentavano presto e la mattina si
alzavano all'alba, per lavorare.
(Molti, da anni, non lavorano più). Poi mi domandarono se la
festa mi fosse piaciuta, e se ci avessi trovato nulla di strano, e se
avrei scritto che non vi avevo trovato qualcosa di strano, e che
la gente di Hollywood, come avevo avuto modo di controllare,
era gente perbene: che non provocava scandali e beveva
pochissimo. Sembravano fanciulli preoccupati di ricevere
rimproveri per una marachella inesistente e provocavano
infinita pietà. Sicché, pur rendendomi conto di avere sciupato
loro una festa a cui tenevano tanto, non mi sentivo colpevole:
perché intuivo che non poteva bastare la presenza di un
giornalista a spaventarli così. Il loro bisogno di evitare gli
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