Page 62 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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osservasse la scena con maligno distacco era Orson Welles che
                si divertiva moltissimo. Poi ebbero inizio le presentazioni.

                    Nemmeno  Mamie  Eisenhower  o  un  agente  delle  tasse
                sarebbero stati trattati quel giorno con la cauta deferenza che mi

                fu  tributata  sulla  terrazza  dei  Cotten.  Tutti  sembravano
                preoccupati di riuscirmi graditi e dimostrarmi che non facevano
                nulla  di  male.  Con  monotona  insistenza  mi  chiedevano  se

                scrivessi  una  «colonna»  mondana  e  restavano  assai  sollevati
                quando  rispondevo  di  no.  Allora  volevano  sapere  che  cosa

                scrivevo e insistevano per sapere se avrei detto bene o male di
                Hollywood  e  soprattutto  di  loro.  Mi  irritavano  e  mi  facevano
                pena mentre li rassicuravo senza successo, invano cercando fra

                gli  alberi  due  fedifraghi  che  si  baciassero  o  una  diva  che
                galleggiasse in piscina, ubriaca.

                  La compostezza più assoluta regnava sulla festa che, di colpo,
                dopo l'arrivo della «straniera che scrive» era diventata innocente

                come una merenda di monache. L'unica persona che bevesse e
                scherzasse, tutto sommato, ero io. Ma nemmeno questo bastava

                ad alleviare il loro terrore: convinti com'erano che si trattasse di
                una astuta manovra per provocarli.
                  Venne infine l'ora del lunch: che si serviva su un'altra terrazza.

                Gli  eletti  fecero  la  coda  dinanzi  a  un  tavolo  dove  presero
                asparagi, riso al burro e tacchino, poi, in silenzio, andarono a

                sedersi ai tavoli sotto gli ombrelloni. Era una splendida giornata
                d'estate, il rombo del mare giungeva agli orecchi in un potente

                trionfo, l'orchestra aveva smesso di suonare gli inni patriottici e
                ripeteva ballabili, il verde del parco del signor Cotten metteva

                allegria.  Ma  tutti  sembravano  molto  infelici,  sperduti  in  un
                incubo.
                  «Non si preoccupi. Ora si svegliano» mi disse Orson Welles.

                Ma sbagliava di grosso. I camerieri negri passavano tra i loro
                tavoli  coi  vini  francesi:  gli  ospiti  dicevano  sempre  di  no,

                ripetendo  ad  alta  voce  che  bevevano  acqua  o  té  zuccherato.  I
                soli  che  dicessero  sempre  di  sì  eravamo  io,  Paola  e  Orson

                Welles.  Paola  sbadigliava  di  noia,  ripetendo,  come  se  ciò  la



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