Page 35 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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«Aspetti un momento,» disse «voglio fare una telefonata.» E si
                allontanò.  Nello  stesso  momento  vidi  arrivare  dalla  porta  che

                conduce alla cucina un vassoio con tre tazzine e una caffettiera.
                «Oh!»

                    esclamai  rivolta  a  Warren  «s'è  decisa!»  Mi  sentivo
                improvvisamente buona, felice. Le avrei parlato senz'altro.
                  Ma dietro il vassoio con le tazzine e la caffettiera non c'era

                Marilyn. C'era la cuoca negra.
                  Non bevvi il caffè. Non mi andava. Mi alzai per partire perché

                mi sentivo offesa in ogni mia fibra.
                    Porsi  la  mano  a  Miller,  lo  ringraziai.  Miller  era  assai
                imbarazzato. «Ho telefonato a Marilyn» disse.

                  «Speravo che potesse venire. Invece è impossibile. Ecco, non
                volevo dirglielo, sapevo che le avrei fatto un dispetto. Marilyn è

                all'ospedale. Ieri ha comprato un coltello da cucina e, affettando
                il salame, s'è tagliata il dito fino all'osso. Le è venuta una gran

                febbre: forse per via dell'infezione.
                    Tornerà  a  casa  fra  tre  o  quattro  giorni.  Per  ora,  neppure  io

                posso andare a vederla. Deve dormire.»
                  Tacque un poco.
                    «Buffo,  no?  Marilyn  ci  teneva  tanto  a  incontrarla.  È  molto

                curiosa.  E  anche  buona:  voleva  farle  fare  un  articolo  che  la
                consolasse  dell'ira  subita  due  anni  fa.  Eravamo  insieme  in

                Connecticut quando lei la cercò. Ma nessuno lo sapeva perché
                bisognava tenerlo nascosto.» Ci avviammo verso l'uscita.

                    Nell'ingresso  c'era  un  armadio  spalancato.  Si  vedevano  due
                pellicce di visone e il vestito di raso color crema che Marilyn

                indossava  la  sera  in  cui  ero  arrivata  tardi  al  Radio  City  per
                quella  parata  che  bloccava  la  Quinta  Avenue.  Accanto  a  un
                cappello di Miller c'era un cappellino di lei: di paglia bianca, coi

                nastri  rossi.  Fissai  con  odio  quegli  oggetti  senza  vita.  Mi
                sembravano i vestiti di un fantasma.

                  «Senta,» dissi a Miller «ma è proprio sicuro che sua moglie
                esista?» Mi guardò con stupore.





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