Page 31 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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«Dovrei  incontrare  Arthur  Miller»  dissi.  Due  giorni  dopo

                partivo: quando si dice sfortuna. Mike è ebreo. E Miller è ebreo.
                Mike  si  definisce  radicale.  (Sapete:  quegli  americani

                all'opposizione  che  predicano  il  liberalismo,  ma  guardano  i
                comunisti  così  e  così).  E  Miller  si  definisce  radicale,
                specialmente dopo il processo. Mike è amico di amici di Miller:

                che  sono  anche  amici  della  Monroe.  Ebbi  l'appuntamento  in
                mezz'ora.

                  «Ci sarà anche Marilyn?» domandai, delusa. «Ci sarà anche
                Marilyn» disse Mike, trionfante.
                  Aggiunse che Marilyn conosceva la mia storia perché gliela

                aveva  raccontata  Irving  Hoffman  e  s'era  molto  divertita  e
                desiderava conoscermi. Sicché, a un certo punto dell'intervista

                con  Miller,  sarebbe  entrata  nella  stanza  per  darmi  il  caffè.
                «Bene»  mi  lamentai.  E  partii  per  l'ultimo  capitolo  della  mia

                avventura con Marilyn Monroe.
                    L'appuntamento  era  proprio  a  casa  dei  coniugi  Miller,  nella

                54a Strada Est, un quartiere silenzioso ed elegante, poco lontano
                da Madison Avenue. Warren Fisher, press agent di Marilyn, mi
                accompagnava.

                  Io ero contenta. L'idea di incontrare la Monroe senza averla
                cercata, dopotutto, mi piaceva. Un portiere sospettoso ci portò al

                tredicesimo  piano,  suonò  con  cautela.  Arthur  Miller  venne  ad
                aprire  e  il  vano  della  porta  lo  inquadrò  come  un  francobollo

                inquadra la testa di un re. Indossava un paio di pantaloni grigi
                senza la piega e un golf di lana blu inchiostro. Sul volto magro e

                abbronzato,  reso  più  pensoso  dagli  occhiali  a  stanghetta,  c'era
                una  espressione  timida  e  gentile.  Mi  sembrò  incredibilmente
                alto,  incredibilmente  forte  e  bellissimo.  Forse  perché  era

                inquadrato  come  un  francobollo,  pensai  che  gli  americani
                avrebbero dovuto eleggerlo presidente anziché condannarlo a un

                mese  di  prigione:  sarebbe  stato  un  presidente  così  decorativo.
                Lo salutai stringendo una mano larga e nodosa, da falegname.

                  Nell'ingresso, proprio di faccia alla porta, c'erano due ritratti di



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