Page 25 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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Il  martedì  pomeriggio,  giorno  in  cui  avevo  prenotato  il  mio
                posto  in  aereo,  giunse  come  un  dono  divino.  Feci  in  fretta  i

                bagagli,  mi  precipitai  all'aeroporto  cantando.  L'aereo  stava  in
                mezzo  al  campo  di  Idlewild:  lucido,  immenso,  l'avrei

                accarezzato. Mi dispiaceva che Jean fosse così triste mentre mi
                sentivo  così  sollevata  e  che  Irving  ci  accompagnasse  con  le
                lacrime  agli  occhi.  Mancavano  dieci  minuti  alla  partenza

                quando mi chiamarono al telefono. Era Lois Weber e aveva la
                voce trionfante.

                    Mi  disse  che  finalmente  tutto  era  a  posto,  avrei  potuto
                incontrarmi  con  Marilyn  uno  dei  prossimi  giorni,  forse
                l'indomani stesso.

                  «Grazie,» risposi «il mio aereo sta per decollare, i miei bagagli
                sono già a bordo. Mi saluti Marilyn e le dica che non le porto

                rancore. Se viene in Italia sarò felice di vederla. Può telefonarmi
                a Milano in qualsiasi momento.» L'altoparlante, ora, chiamava i

                passeggeri.  Corsi  a  mettermi  in  fila.  «Chi  era?»  chiese  Irving
                con un lampo di sospetto dietro gli occhiali.

                  «Un'amica» risposi. «Voleva salutarmi. Le ho detto che venga
                in Italia.» «Oh!» disse Irving, deluso.
                    Invece,  io  uscivo  liberata  da  un  incubo.  Mentre  l'aereo

                decollava,  guardavo  i  grattacieli  senza  rimpianto.  La  notte,
                sopra l'Atlantico, dormii come un angelo.

                  Giunta a Milano, scrissi un articolo che mi fu pagato il doppio
                degli  altri.  Alcuni  lettori  mi  mandarono  mazzi  di  rose  per

                consolarmi di ciò che avevo sofferto. Altri, lettere di simpatia.
                Per due mesi continuai a ricevere i ritagli che Irving Hoffman

                mi spediva, ostinato. Erano piccole cronache dove si parlava più
                di  me  che  di  Marilyn,  ma  dove  il  mio  nome  risultava
                dolorosamente  storpiato  sicché  non  potevo  esibirle  per

                dimostrare quanto fossi famosa negli USA. In un solo ritaglio il
                mio nome era esatto, quello con la cronaca di Igor Cassini che

                aveva  dedicato  metà  della  sua  rubrica  a  me  e  metà  a  re
                Baldovino.  Si  concludeva  così:  «Marilyn,  how  preciousyous

                are!» (Ma Marilyn, quanto sei preziosa!) Lo attaccai al muro di



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