Page 24 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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Mi telefonò anche Guido Orlando, un oriundo abruzzese che si
                fa passare per un amico di D'Annunzio e s'è battezzato da solo

                «il  re  della  pubblicità».  Orlando,  che  godette  da  noi  qualche
                attimo di fama nel '48 quando, piantato all'Excelsior di Roma,

                sembrava  più  indaffarato  di  De  Gasperi  alle  elezioni,  è  un
                modesto  public  relationist  (provoca,  dietro  pagamento,
                ricevimenti,  notiziole,  articoli  su  un  prodotto  o  su  un

                personaggio). Ometto da nulla, di scarsa educazione e cultura, è
                abilissimo soltanto nel vendere le fandonie della pubblicità e nel

                raccogliere pettegolezzi utili.
                    Dopo  aver  definito  la  mia  storia  «sensazionale»,  mi  offrì  di
                tenere  una  conferenza  stampa  e  di  innalzare  la  mia  fama  a

                quella  di  Elsa  Maxwell.  Respinsi  l'invito  spiegando  che  ero
                ammalata,  mi  dolevano  gli  occhi,  la  schiena,  gli  orecchi,  che

                avevo un principio di esaurimento nervoso. Fra l'altro non era
                nemmeno una bugia. Orlando non rimase convinto, telefonò a

                Igor  Cassini  che,  col  nome  di  Cholly  Knickerbocker,  tiene  la
                rubrica  più  letta  d'America.  Mi  fece  parlare  con  lui.  Cassini

                disse  che  era  una  storia  squisita,  che  mi  ringraziava  per
                avergliela raccontata e che l'indomani avrei potuto leggerla sul
                «Journal  American».  Una  intervista  con  Knickerbocker  era  il

                massimo  cui  una  persona  desiderosa  di  pubblicità  potesse
                aspirare.

                  «Straordinario,» diceva Orlando «straordinario.» Si infuriava
                quando io gli dicevo che non avrei considerato meno importante

                se  avessi  intervistato  io  il  signor  Knickerbocker.  Detestavo
                Marilyn con tutte le sue curve, e le sue paure e i suoi riccioli

                d'oro,  sognavo  soltanto  di  partire.  Dopotutto  l'avevo  vista,  e
                bene, in un negozio di Times Square, dove le famose fotografie
                in cui appare nuda, distesa su un tappeto rosso, erano esposte in

                vetrina,  e  si  vendevano  liberamente  a  venticinque  cents  l'una,
                cinque per un dollaro.

                  Inutilmente  la buona  Miss Weber  mi telefonava  affermando
                che Marilyn sarebbe stata felicissima di incontrarmi. Tutto stava

                nel rintracciarla perché non era tornata più a casa.



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