Page 154 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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«Forse»  brontolò.  «Ma  è  un  grand'uomo  anche  lui.  Voglio
                diventare come lui.» Poi volle un altro gelato, si pulì la bocca

                con la manica della giacchetta e mi raccontò la sua storia.
                    Si  chiamava  Peter  Fray,  aveva  diciotto  anni,  veniva  dal

                Nebraska. «Un giorno vedo il film di Jimmy e mi dico: voglio
                diventare identico a lui. Dico: mi piace- anche Marlon, ho una
                grande ammirazione per Monty; ma Jimmy, dico, è qualcosa di

                più.  Lo  dico  ai  miei  genitori  che  mi  dicono:  sei  pazzo,  chi  ti
                piglia brutto come sei?

                  Così io mi ribello e vendo la motocicletta e vado a New York
                per  diventare  un  attore.  Ma  a  New  York  è  impossibile,  sai.
                Bisogna  conoscere  la  gente  adatta.  Io  ogni  tanto  conosco

                qualcuno che è un tipo molto gentile, mi accarezza i capelli e mi
                vuoi  portare  a  fare  un  viaggio,  io  non  ci  vado  perché  voglio

                diventare un attore, non fare un viaggio, e lui non mi aiuta per
                niente. Poi mi dicono che perdo il mio tempo, bisogna andare a

                Hollywood dove tutto è più facile, così vengo a Hollywood e
                tutto è difficile come a New York. Devi avere l'automobile, devi

                essere qualcuno e se non sei già qualcuno ti respingono come un
                pezzente.» Aveva le lacrime agli occhi. «Odio questa città. È la
                città più idiota e più cattiva d'America. Sono tanto infelice.» Gli

                domandai  perché  fosse  infelice.  Si  grattò  la  testa:  «Non  so.
                Dico,  tutti  i  ragazzi  della  mia  età  sono  infelici.  È  che  non  ci

                capiscono, dico. A volte vorrei ucciderli tutti».
                  «Chi?» chiesi.

                  «Bè, tutti.» Gli chiesi se aveva una ragazza, forse una ragazza
                lo avrebbe reso meno infelice. «No, signora.

                  Non mi interessano le ragazze. Loro non mi guardano e io non
                le  guardo.  Posso  farne  a  meno  benissimo.  Dico:  voglio
                diventare  un  attore,  io.»  Ripeteva  quelle  frasi  già  attribuite  a

                Marlon  Brando  o  a  James  Dean  come  una  poesia  imparata  a
                memoria,  non  sapeva  dire  altro  e  non  avrebbe  fatto  carriera

                nemmeno  se  Cobina  gli  avesse  dedicato  per  un  anno  la  sua
                buona azione giornaliera.

                  «Perché non torna nel Nebraska?» gli chiesi. «Lasci perdere



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