Page 150 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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segreto  di  spie.  Le  ciglia  setose,  ricurve  come  se  fossero
                spalmate  di  rimmel,  palpitavano  con  insistenza.  Mi  accese  la

                sigaretta con lentezza studiata, la sua bocca cicciuta soffiò sul
                fiammifero. Il soffio fu violento e delicato insieme. Deluderei il

                signor Brynner se scrivessi che non mi procurò un dolcissimo
                brivido. Non me lo procurò.
                  Poi: «Europa!» disse. Lo fissai senza capire.

                  «Amo l'Europa» spiegò, un po'"irritato.
                  «Parigi!» disse.

                  «Ama Parigi» aggiunsi tutta contenta di aver capito benissimo.
                    «No»  disse  più  irritato  che  mai.  «Ci  ho  passato  una
                adolescenza infelice.» E mi raccontò la sua carriera di acrobata,

                mi  parlò  delle  cinquantasette  fratture  (e  io  lo  guardai
                meravigliandomi  che  fosse  intero  ma  ripetè,  inesorabile:

                «Cinquantasette.  Ho  le  radiografie»),  mi  accennò  alla  sua
                esperienza  di  palcoscenico,  a  Georges  e  Ludmilla  Pitoéff  che

                per primi compresero d'avere a che fare con un autentico attore,
                insistette sulla antica amicizia con Jean Cocteau. «Fu Cocteau a

                darmi  un  prezioso  consiglio:  ricordati,  mon  cher,  che  quando
                sarai un divo il pubblico non deve pensare che vai al gabinetto.»
                Tacque ancora afferrandomi un polso. Era una vera stretta, mi

                faceva  male  e  gli  avrei  tirato  una  pedata  allo  stinco.  Ma  mi
                frenai: stava per dirmi qualcosa di molto importante.

                  Infatti: «A lei, però, voglio dire una cosa importante. Non sono
                calvo,  come  si  insinua.  Se  voglio,  posso  far  crescere  i  miei

                capelli fino ai ginocchi». Lo disse con convinzione, senza ridere
                nemmeno un poco, così ricordai di non aver mai visto ridere a

                gola  aperta  Yul  Brynner  e  gli  chiesi  perché.  Yul  disse:  «Ma
                chère,  ridere  mi  turba  come  piangere.  La  vita  è  troppo  triste
                perché possiamo permetterci le risate».

                    Aggrottai  la  fronte:  mi  sembrava  di  avere  già  letto  la  frase.
                Infatti fu attribuita, vent'anni fa, a Greta Garbo.

                    Intuì  la  mia  diffidenza?  Certo  sì:  perché  si  guardò  intorno,
                accertandosi che nessuno ascoltasse, e, chinandosi verso di me,

                aggiunse  precipitoso:  «No,  no.  A  lei  voglio  fare  un  regalo.



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