Page 75 - Oriana Fallaci - 1968
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dagli americani con chiatte di ferro. È una specie di palafitta sul
                fiume e al di là del fiume il bosco pullula di vietcong. Gli aerei

                passando lasciano cadere i bengala, le pattuglie sparano senza
                riposo, mentre mangi ti aspetti che una pallottola cada sul piatto.

                «Khan,  non  potevi  scegliere  un  posto  più  tranquillo?»  chiede
                Moroldo. Khan si stringe dentro le spalle: «A me non fa effetto.
                Io, che vuoi, sono nato dalla morte. Non ho visto che morte da

                quando sono al mondo: cosa sia questa pace di cui parlate voi
                non lo so. E la libertà? Che cos’è? L’ho letta sui libri di Pascal e

                di Sartre ma non so immaginarla. Quando scoppiò la guerra in
                Israele  mi  faceva  uno  strano  effetto  leggere  i  vostri  giornali.

                Non capivo perché se la pigliassero tanto. Per me Israele era un
                paese  che  tornava  alla  normalità,  cioè  alla  guerra».  Allora  gli

                chiedo  da  che  parte  sta  lui,  se  con  i  vietcong  o  con  gli
                americani, e lui mi risponde: «Né con gli uni né con gli altri. Ha
                letto Camus? Io mi sento come Lo straniero. Tutto ciò mi lascia

                indifferente,  anzi  freddo.  La  guerra  io  la  guardo  come  un
                temporale  perpetuo  e  contro  cui  non  si  può  far  nulla.  O,  se

                preferisce,  come  un  esquimese  guarda  la  neve:  l’elemento
                naturale in cui vivere». Un colpo ci passa vicino, la pallottola

                cade nell’acqua. «Dottor Khan,» dico «ma allo straniero taglian
                la  testa.»  Ride  nervosamente.  «Anche  questa  eventualità  mi

                lascia del tutto freddo. La morte, sa, ha un valore assai relativo.
                Quando è poca, conta. Quando è molta, non conta più. Se muore
                un  bambino  sotto  un’automobile  a  Roma  o  a  Parigi,  tutti

                piangono  sulla  grande  disgrazia.  Se  muoiono  cento  bambini
                quaggiù, tutti insieme, per una bomba o una mina, esprimi solo

                un poco di pietà. Uno più, uno meno, che importa? Li guardi
                come  guardavi  i  cadaveri  degli  ebrei  in  Germania.  Io  quando
                all’ospedale mi arriva uno molto ammalato, non tento nemmeno

                di salvarlo. Gli do un po’ di morfina e lo lascio crepare. La mia,
                vede, non è neppure rassegnazione: è silenzio. Quando verrà il

                mio  momento,  resterò  in  silenzio.  Penserò  solo:  m’è  andata
                bene  fino  ad  oggi.»  Allora  gli  chiedo  se  c’è  molta  gente  che

                pensa  come  lui,  e  lui  risponde  sì:  è  l’atteggiamento  normale
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