Page 73 - Oriana Fallaci - 1968
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cento, sapremo quel che è stato deciso prima di mezzanotte. E
sono appena le sei del pomeriggio. «Moroldo, cosa facciamo?»
«Io non ho voglia di fare nulla, torniamo qui verso le dieci.»
Alle dieci siamo lì. Abbiamo mangiato senza appetito, per
impiegare il tempo: una cosa è veder morire la gente in
battaglia, quando anche tu rischi la morte, un’altra è star qui
impotenti a guardare, aspettare, pensare che la vita di ben nove
creature dipende da un sì o un no di uomini politici che magari
si fanno i dispetti fra loro. Chi pregheranno quelle nove
creature? Chi malediranno? La sera fa caldo a Saigon, l’aria s’è
come fermata in un’afa che toglie il respiro. Negli uffici della
France Presse pochi parlano, nelle pause di silenzio le lancette
del grande orologio a muro rimbombano come cannonate.
Qualcuno si mangia le unghie, qualche altro si tormenta un
orecchio o accende sigarette che subito getta via. Pelou tace,
immobile. Io ho male allo stomaco, quest’attesa è peggio che
una pioggia di mortai: lì almeno fai qualcosa, ti nascondi,
scappi. Poi, verso le undici e mezzo, il telefono squilla. Due,
quattro, sei mani si tendono verso il ricevitore. Lo alza Pelou,
veloce come un gatto. E un lampo dei suoi occhi ci dice che è
fatta. Io rido, rido, balbetto grazie, François, grazie!
L’esecuzione è stata sospesa.
«Il dolore, per noi, è un fatto normale»
I BAMBINI DI SAIGON. Il coprifuoco a Saigon incomincia alle
undici per gli americani, a mezzanotte per i vietnamiti. Tra i
civili solo i giornalisti possono spostarsi di notte, malgrado
pochi lo facciano: non c’è dove andare e a volte le pattuglie
sparano prima di domandare chi sei. Ieri sera hanno sparato a un
bambino. Però stanotte voglio camminare un poco per Saigon:
questa storia della fucilazione mi ha spaccato i nervi, so che non
riuscirò a dormire. Mi incammino sola lungo un marciapiede, la
città è deserta, muta. Odi solo il rombo lontano di un