Page 61 - Oriana Fallaci - 1968
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altri  sono  indifferenti  che  osservano  il  culto  degli  antenati
                accendendo  candele  sugli  altari  dei  morti.  Come  se  ciò  non

                bastasse,  il  buddismo  non  fu  mai  nel  Vietnam  una  Chiesa
                organizzata, fu sempre e soltanto un sistema di vita. In Vietnam

                si  incominciò  a  parlar  dei  buddisti  solo  nel  maggio  del  1963
                quando  un  monaco  sveglio  e  ambizioso,  Tri  Quang,  tenne  un

                discorso  infiammato  nella  città  sacra  di  Hué.  Lo  tenne  per  il
                semplice  fatto  che  la  radio  governativa  s’era  rifiutata  di

                mandarlo in onda, egli era antipatico al direttore. A Hué ci sono
                molti buddisti. Ne seguì una sommossa, la polizia caricò, otto
                bonzi rimasero uccisi. E il Venerabile Tri Quang si appoggiò a

                un  suo  superiore,  il  Venerabile  Tarn  Chau,  perché  incitasse  i
                buddisti alla lotta contro Diem e Madame Nhu. La farsa ebbe

                inizio.
                    Il  cattolico  Diem  perseguitava  i  buddisti  né  più  né  meno
                come perseguitava gli altri. Ma un vecchio monaco ebbe l’idea

                di  bruciarsi  e  un  giornalista  lo  fotografò  mentre  si  bruciava.
                Dalla pagoda Xa Loi gli era giunta una telefonata: «Domattina

                si trovi nella strada tale all’ora tale». La fotografia fece il giro
                del  mondo,  il  mondo  ci  pianse.  Gli  americani,  scontenti  di

                Diem,  videro  nei  buddisti  un  possibile  e  prezioso  alleato.
                Presero contatto con loro, gli montarono la testa, gli attribuirono

                un  ruolo  che  non  avevano  mai  avuto:  quello  di  difensori
                dell’idea  nazionale.  Le  dimostrazioni  buddiste  aumentarono,
                con la presenza più o meno gradita dei vietcong. Altri sei roghi

                umani seguirono: fotografati e drammatizzati dal corrispondente
                del «New York Times», dell’Associated Press, dell’UPI. Tutti e

                tre  americani.  Praticamente,  in  quei  giorni,  erano  i  soli
                corrispondenti di stanza a Saigon e chiunque vi spiegherà che
                erano giovani svelti ma professionalmente forse un po’ verdi. Si

                lasciarono  conquistare  dal  sensazionalismo  delle  immolazioni
                neanche  esse  fossero  l’unico  dramma  del  Vietnam,  un  fatto

                paragonabile  ai  vietcong.  Non  credettero  mai  a  Madame  Nhu
                che,  perfida  e  non  sciocca,  gridava:  «Sono  rossi  vestiti  di

                giallo!». Credettero più all’ambasciata, lanciarono i bonzi come
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