Page 377 - Oriana Fallaci - 1968
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che hanno fatto è stato di liberarmi di questi vestiti, di questi
                pantaloni e di questa giacchetta, assolutamente zuppi di acqua

                infetta,  che  avevo  addosso.  E  sono  rimasta  lì  nuda  su  quella
                barella  tremando  di  freddo.  Quando,  dopo  un’ora  e  mezzo  o

                due, è arrivato un funzionario dell’ambasciata, avvisandomi che
                l’ambasciatore  mi  avrebbe  mandato  un  medico,  allora  si  sono
                finalmente decisi a portarmi a fare una radiografia.

                    A un certo punto al pronto soccorso è avvenuto una specie di
                miracolo sotto forma di un uomo ben vestito, con l’aria educata

                ma dalla faccia durissima e severa che si presenta come il dottor
                Gabriel Espinosa. Io non capisco il nome e credo che sia uno

                della  polizia  e  lo  maltratto.  Mi  toglie  il  lenzuolo  che  avevo
                addosso e comincia a guardare le ferite. «Non mi tocchi!» gli

                dico,  e  quello  educatamente  mi  chiede  se  ho  bisogno  di
                qualcosa. «No, tengo tre pallottole nella carne e sono più che
                sufficienti».  Quello  si  allontana  in  silenzio  e  dopo  qualche

                momento  torna  con  un  altro  signore  ancora  più  elegante,
                estremamente dignitoso, severo anche lui, ma con gentilezza. È

                estremamente  elegante,  parla  italiano  e  si  presenta  come  il
                professor Giovanni Viale e mi spiega che quest’altro medico è il

                suo assistente e che tutti e due sono venuti per aver cura di me.
                Da quel momento tutto è cambiato. Le loro dita erano leggere

                nel tastare le ferite, i loro sguardi erano educati e le loro voci
                erano  pacate:  era  come  uscire  da  un  incubo.  Furono  loro  due
                che,  non  solo  come  medici,  ma  piuttosto  come  angeli,

                dall’inferno mi portarono in paradiso.
                    Era il mio mondo che tornava a me. Il professor Viale si tolse

                l’impermeabile  e  me  lo  mise  addosso  e  fu  l’unico  indumento
                che avevo, l’altro si tolse la giacchetta e mi coprì una parte del
                corpo.  Mi  caricarono  dolcemente  sulla  loro  automobile  e  mi

                portarono via, in gran fretta poiché io ero praticamente in stato
                di arresto. Cominciò la corsa di notte attraverso la città ancora

                sconvolta per portarmi in questa clinica dove mi hanno operata.
                Fu  una  corsa,  ma  ebbero  cura  di  guidare  dolcemente.

                Arrivarono  al  pronto  soccorso  a  mezzanotte  dopo  che
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