Page 376 - Oriana Fallaci - 1968
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E io: «No. Porqué?». «Entonces es una agitadora.» Allora io gli
                ho detto: «Usted me llama inmediatamente mi embajada». E lui

                ha  detto  no.  Allora  è  venuto  un  altro  poliziotto  e  io  mi  sono
                rivolta a lui: «Ho chiesto a questo signore di chiamare la mia

                ambasciata  e  lui  ha  detto  no».  Il  secondo  poliziotto  ha  detto:
                «Infatti è no». Allora sebbene mi sentissi molto male mi sono
                messa a strillare: «Prima la polizia messicana mi spara, poi mi

                nega perfino il diritto, che mi spetta come cittadina straniera, di
                chiamare  immediatamente  la  mia  ambasciata».  Mi  hanno

                lasciata lì, si è avvicinata un’infermiera di mezza età, con una
                faccia dolcissima, e mi ha detto: «Non lo dica a nessuno. Gliela

                chiamo io l’ambasciata. Come si chiama?». Le ho dato il nome,
                e lei è andata a chiamare l’ambasciata.

                    Quello  che  si  svolgeva  attorno  a  me  era,  sai,  era  uno
                spettacolo terribile. Accanto a me per terra c’era una ragazzina
                di sedici-diciassette anni che aveva metà faccia. Una raffica di

                mitra  le  aveva  portato  via  metà  mascella,  parte  del  naso,
                un’orecchia.  Stava  perdendo  sangue  in  modo  atroce.  C’era

                un’altra  ragazza  di  tredici  anni  che  aveva  il  braccio  sinistro
                completamente perforato dalle pallottole. C’era una donna con

                una bambina in braccio, che aveva una grossa ferita in testa, e la
                cosa  commovente  era  che  tutti  mi  guardavano  e  quelle  che

                potevano  parlare,  quelle  che  non  erano  moribonde,  mi
                guardavano  e  mi  dicevano:  «Tlatelolco?»,  per  indicare  il
                quartiere  dov’è  avvenuta  la  sparatoria.  E  io  dicevo  sì.  E  loro

                dicevano:  «Estudiante?».  E  io  dicevo  no.  «Periodista?».  E  io
                dicevo sì. E loro mi strizzavano l’occhio e poi alzavano le dita a

                «V»,  il  simbolo  di  vittoria,  il  saluto  degli  studenti  americani,
                l’indice e il medio alzati come Churchill. Mi facevano il segno a
                «V».  I  medici  non  facevano  neanche  in  tempo  a  curarli  tutti

                perché ce n’erano tanti contemporaneamente. Ogni tanto veniva
                qualcuno da me, mi guardava e diceva: «Nessuno si prende cura

                di  lei?».  E  io  dicevo  no.  D’altra  parte,  come  facevo  a
                pretendere, capisci, che avessero cura di me quando c’era della

                gente che stava morendo, io non stavo morendo. L’unica cosa
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