Page 36 - Oriana Fallaci - 1968
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rimasto  vittima  all’alba  di  un  mortale  incidente.  Il  conduttore
                del camion è fuggito, la polizia indaga”». «Nooo!» singhiozza

                Nguyen Van Tarn. «A meno che tu non parli. In tal caso avrai il
                processo, la fucilazione. Parlerai?» Risponde un bisbiglio: «Son

                pronto».
                    Parlò  fino  alle  tre  e  mezzo  del  mattino,  senza  fermarsi.
                Indicò  tutto  il  piano  dell’attentato  che  doveva  avvenir

                l’indomani,  nella  gran  piazza  dove  ha  sede  l’ufficio  stampa
                degli americani e si va noi giornalisti. Spiegò dove rintracciare

                le  tre  mine  Clymore,  le  granate,  le  bombe,  fornì  i  nomi  dei
                capicellula, infine quello del capo che si chiamava quasi come

                lui: Nguyen Van Sam. Nguyen Van Sam fu catturato il giorno
                dopo, per strada. Fu portato direttamente all’ufficio del capitano

                Tan  e  messo  a  confronto  con  l’ex  compagno.  Gli  sputò  in
                faccia: «Traditore, vigliacco». Poi il capitano Tan rimase solo
                con lui. Lo pregò di sedere. Gli offrì una sigaretta. Incominciò:

                «Tu  sei  un  capo,  io  sono  un  capo…».  Dopo  due  ore  anche
                Nguyen Van Sam diceva: «Son pronto». E raccontava tutto, ma

                tutto: i dieci anni ad Hanoi, la scuola di sabotaggio, i ventinove
                attentati personalmente compiuti dal 1° marzo 1965 al 10 luglio

                1967,  compreso  quello  al  ristorante  My  Canh.  Venticinque
                morti  in  pochi  secondi,  cinquantotto  morti  e  centonovantasei

                feriti in poco più di due anni. «Oh, se funziona!» ha esclamato il
                capitano Tan ridendo quella risata a colpo di tosse. «Ci casca
                chiunque.»

                    Ho  chiesto  al  capitano  Tan  se  prima  di  Nguyen  Van  Sam
                posso vedere Huynh Thi Anh, la ragazza. Ha risposto sì e poco

                dopo essa è entrata, con una benda nera sugli occhi. Le hanno
                tolto la benda e uno sguardo carico d’odio ha fissato a lungo il
                capitano  Tan  poi  s’è  posato  su  me  con  indifferenza  mista  a

                disprezzo. «Siedi» ha ordinato il capitano Tan. Lei s’è seduta,
                con le mani in grembo, i piedi intrecciati. Era bella come una

                Madonna,  o  così  m’è  parso.  Ma  era  sfregiata  da  cicatrici:
                all’ospedale  i  dottori  lavorarono  un  mese  per  strapparla  alla

                morte  e  consegnarla  all’asciugamano  bagnato.  Ha  chiesto:
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