Page 326 - Oriana Fallaci - 1968
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di  restituire  il  Tibet  alla  madre  patria.  Difendersi  era
                naturalmente  impossibile.  Tutto  l’esercito  consisteva  in

                ottomilacinquecento  fra  soldati  e  ufficiali,  duecentocinquanta
                mortai,  duecento  mitragliatrici  leggere,  cinquanta  pezzi  di

                artiglieria  arrugginita.  E,  sebbene  nel  1812  il  Tibet  avesse
                dichiarato  l’indipendenza,  quest’atto  non  era  stato  sanzionato

                dinanzi  a  nessuna  nazione:  da  secoli  il  paese  viveva
                nell’isolamento totale, le sue frontiere erano chiuse al resto del

                mondo,  i  suoi  rapporti  diplomatici  erano  inesistenti.  Basti
                pensare che in quel periodo vi abitavano solo sei occidentali: un
                missionario e due radioperatori inglesi, un russo e due austriaci

                fuggiti da un campo di concentramento indiano. Però, mentre i
                monaci  si  affrettavano  a  spedire  in  India  una  parte  del  tesoro

                statale,  polvere  d’oro  e  sharie  d’argento,  il  sapiente  ragazzino
                fece  qualcosa  di  più:  anziché  fuggire,  chiese  aiuto
                all’Inghilterra,  agli  Stati  Uniti,  ai  paesi  di  cui  aveva  appena

                sentito parlare. E, quando n’ebbe un rifiuto, si rivolse all’ONU:
                un organismo di cui non gli avevano mai detto nulla. L’ONU

                negò ogni intervento, nella primavera del 1951 i primi reparti
                cinesi entravano in Lhasa alzando enormi ritratto di Mao Tse-

                Tung e Ciu En-lai. Ma nemmeno allora lui capitolò. Mandò una
                delegazione a Pechino, intavolò trattative coi generali cinesi e,

                loro  prigioniero,  assunse  tutte  le  possibili  responsabilità  di  un
                re.
                    Fu  per  nove  anni  un  buon  re.  Provocò  e  attuò  riforme,  si

                barcamenò  con  astuzia,  si  recò  perfino  in  Cina  a  parlare  con
                Mao  Tse-Tung.  Studiò  Marx  e  l’inglese.  Tentò,  tutto  solo,  a

                un’età in cui di solito si gioca a pallone, di penetrare un mondo
                che per lui era più lontano della Luna e di Marte. Un mondo
                dove si predicava l’uguaglianza sociale, si andava in treno e in

                aereo,  si  rideva  della  favola  in  cui  egli  era  fino  a  sedici  anni
                vissuto.  La  sua  libertà  si  restringeva  sempre  di  più,  di  tutta

                quella  reggia  disponeva  ormai  di  soli  cinque  locali  e  lì  gli
                giungevano notizie di monasteri distrutti, conventi saccheggiati,

                lama torturati e uccisi, inutili rivolte di contadini armati solo di
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