Page 147 - Oriana Fallaci - 1968
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agli alberi che bruciano svelti come fiammiferi. Il gas portato
                dal vento ci soffoca, ci fa lacrimare gli occhi, tossire: un marine

                mi  getta  una  maschera.  «Cosa  è  successo?»  ripeto  prima  di
                infilarci la testa. «I vietcong hanno sparato un colpo di mortaio

                sulla chiatta. Era carica di esplosivo, si è disintegrata. C’erano
                quindici uomini a bordo.» Uno si chiamava Johnny. Era noioso,
                era pauroso, e io, invece di consolarlo, sono stata sgarbata con

                lui.






                Il pilota prudente


                «La notte li sento scavare / come tarli in un legno / ma non sono

                tarli, son loro / che avanzano curvi / verso di me / a colpi di
                vanga, dentro la terra / anche il giorno qui è notte / perché anche

                il  giorno  /  restiamo  qui  chiusi  /  come  topi  nel  buio  /  sotto  le
                longarine d’acciaio, sotto i sacchi di rena. / Il comandante ci ha

                dato il permesso / di suonar la chitarra. Dice che ci fa bene. / Ma
                io  non  voglio  suonar  la  chitarra.  /  Voglio  uscire  da  questa
                tomba, da questa attesa crudele / e se esco mi ammazzano. Ieri /

                hanno  ammazzato  il  mio  amico.  /  Lo  hanno  visto  col
                canocchiale,  e  gli  hanno  sparato.  /  Mamma,  sono  stanco.  /

                Dapprima ero fiero, mi avevano detto che servo la pace. / Ma
                perché tocca a me, proprio a me / difendere la pace / sottoterra
                come fossi già morto / mentre, a casa, loro fanno le leggi / che

                poi adoperano per farmi morire?»
                    È la poesia di un soldato americano a Khe Sanh. Me l’ha data

                un  pilota  che  è  appena  arrivato  da  Khe  Sanh,  il  tenente  Fred
                Barlow,  comandante  di  un  C130  che  per  la  prima  volta  ha

                potuto atterrare sulla pista per ben quattro minuti e mezzo, poi
                ripartire  indenne.  Sono  ormai  quarantacinque  giorni  che  dura

                l’assedio di Khe Sanh, la base americana ai confini col Laos.
                Seimila  marine  circondati  da  almeno  quarantamila  vietnamiti,
                che  posson  balzare  su  di  loro  in  qualsiasi  momento.  Perché

                ancora  non  l’abbiano  fatto,  nessuno  lo  capisce:  è  un  mistero
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