Page 144 - Oriana Fallaci - 1968
P. 144

dieci in punto: è l’una del pomeriggio e ancora siamo qui, sotto
                la pioggia, ad attendere che il tenente si faccia vivo. Alle dieci

                in  punto  il  tenente  ha  scoperto  di  avere  appetito.  Così  s’è
                allontanato per cercare una scatoletta e nessuno l’ha più rivisto.

                Quando ricompare è già l’una e mezzo e lui non sembra aver
                fretta.  Tiene  in  mano  la  scatoletta,  su  cui  è  scritto  «pollo

                disossato», e cerca qualcosa per aprirla. Gli do il mio coltello,
                risponde  che  il  coltello  non  va  mica  bene.  Gliel’apro  col  mio

                coltello, risponde che così ghiaccia non la può mica mangiare.
                Qualcuno  allora  gli  dà  un  bussolotto  con  un  quadratino  di
                magnesio, e gli accende il magnesio. Ma il bussolotto scivola, il

                magnesio  cade  in  una  pozza  d’acqua  e  si  spegne,  e  bisogna
                ricominciare  daccapo:  cercando  un  altro  quadratino  che  il

                tenente  non  trova  e  poi  trova.  L’operazione  riscaldamento
                prende  venti  minuti,  tutti  pendiamo  dal  dannatissimo  pollo
                disossato che bolle. Però, quando è ben caldo, il tenente gli dà

                una  spinta  maldestra  e  lo  butta  giù  nella  mota.  Bisogna
                rimetterci lì ad aspettare che torni con l’altra scatoletta di pollo,

                la scaldi, la mangi: e sono ormai le due del pomeriggio quando
                il  convoglio  parte:  dieci  camion,  quattro  carri  armati,

                un’autocisterna carica di benzina, due jeep.
                    Il mio camion segue l’autocisterna con la benzina. Porta un

                sergente  con  la  mitraglia  pesante,  sei  soldati  con  la  carabina,
                due telefonisti in contatto continuo col resto del convoglio e un
                marine che appartiene a una chiatta da sbarco ancorata sulla riva

                Nord del fiume dei Profumi, a Hué. Si chiama Johnny, viene dal
                Nord  Carolina,  ha  ventiquattr’anni,  un  visuccio  coperto  di

                pustole,  e  una  paura  scoraggiante.  La  sua  chiatta  da  sbarco  è
                carica  di  esplosivi,  lui  vive  nel  terrore  di  saltare  in  aria.  Il
                pericolo  di  un  convoglio,  mi  spiega,  non  sta  nemmeno  nelle

                fucilate: sta nelle mine.
                    «Su questa strada» mi spiega «i vietcong non tirano fucilate:

                mettono le mine. Le mine Clymore. Sai, quelle col filo elettrico
                eccetera. Ci passi sopra con una ruota e salti in aria, così. Ieri il

                primo convoglio è saltato in aria così. Ma ammettiamo, guarda,
   139   140   141   142   143   144   145   146   147   148   149