Page 145 - Oriana Fallaci - 1968
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che  oggi  ci  vada  bene,  che  si  limitino  a  tirar  fucilate:  siamo
                dietro       l’autocisterna,         dannazione,          basta      una       fucilata

                all’autocisterna e noi saltiamo in aria così.» Povero Johnny: è
                difficile esigere da lui la pietà del silenzio, specialmente ora che

                corriamo nel tratto di strada più brutto, quello costeggiato dalle
                colline, e ciascuno di noi prega in silenzio il Signore, suda sotto
                la pioggia. Il tormento finisce solo quando arriviamo, intatti, a

                Hué. Il convoglio si ferma sulla riva destra del fiume, e lui salta
                giù  dal  camion  gridando  ciao,  grazie,  ciao.  La  sua  chiatta  è

                dall’altra parte, la vediamo benissimo mentre egli si dirige verso
                il  traghetto,  verso  le  sue  ultime  tre  ore  di  vita.  Ma  ci  ha

                esasperato talmente che non rispondiamo neanche al suo saluto.
                Io per prima.

                    Sono turbata, oltretutto, da ciò che vedo. Anzi non vedo: Hué
                non esiste più. Della più bella città del Vietnam, la più antica (la
                chiamavano  la  Firenze  dell’Asia),  rimangono  solo  macerie  e

                rovine. Sbriciolate le pagode, le chiese, i palazzi, le università,
                le case vecchie di trecent’anni, le statue, non rimane più nulla.

                Pensa  a  Firenze  senza  più  Battistero,  né  Torre  di  Giotto,  né
                Santa Maria del Fiore, né Palazzo Vecchio, né Palazzo Pitti, né

                la  Loggia  dell’Orcagna,  né  gli  Uffizi.  «I  reparti  militari
                americani e sudvietnamiti hanno cercato di non impiegare forze

                eccessive contro le zone storiche della città di Hué» aveva detto
                Barry Zorthian. «Ma poiché il nemico utilizzava proprio le zone
                storiche per asserragliarvisi, i nostri reparti sono stati costretti a

                bombardare            anche        quelle        con       massicci         interventi
                dell’aviazione.»

                    Insieme  a  quei  capolavori,  i  massicci  interventi
                dell’aviazione hanno eliminato, è ovvio, la gente. Un calcolo dei
                morti è impossibile, ci inciampi a ogni passo. Anche perché i

                vietcong non sono certo stati più teneri degli americani: chi non
                è morto sotto il napalm o i colpi d’artiglieria, è morto fucilato

                dai vietcong. In una fossa comune del quartiere Baud Don ne
                hanno  trovati  novantacinque,  con  le  mani  legate  dietro  la

                schiena  e  il  colpo  alla  nuca.  Altri  trenta,  sospetti  di
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