Page 146 - Oriana Fallaci - 1968
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collaborazionismo, giacciono lungo il muro di una caserma. E
                ora  che  i  vietcong  si  sono  ritirati  da  Hué,  quasi  certamente

                fuggendo  dai  sotterranei  del  palazzo  imperiale  attraverso  cui
                scappò  nel  1885  l’imperatore  Ham  Nghi,  incominciano  le

                rappresaglie  dei  sudvietnamiti.  Millecento  persone  accusate
                d’aver collaborato col Fronte nazionale di liberazione sono state
                arrestate:  in  massima  parte  professori,  bonzi,  studenti.  Altri

                duecento sono scomparsi, altri ancora sono stati eliminati senza
                cerimonie,  con  un  colpo  al  cuore  o  alla  tempia.  Il  puzzo  dei

                cadaveri  è  tale  che  ti  soffoca  come  una  esalazione  di  gas,
                cammini  col  fazzoletto  alla  bocca,  trattenendo  singulti  di

                vomito. In ogni piazza ti imbatti nei becchini che scavano fosse
                comuni, utilizzando soprattutto le aiole. La fossa più grande è

                questa  intorno  alla  quale  sono  ammucchiati  quaranta  cadaveri
                ormai  decomposti.  A  uno  a  uno  i  becchini  li  rivoltano  in
                lenzuoli di cellofan, poi li legano al petto al collo e alle gambe

                con fili di rafia, e li gettano giù nella buca. I bambini stanno a
                guardare: è il loro divertimento veder seppellire i morti, e anche

                vederli disseppellire.


                Nell’aiola ci sono altre fosse, ma piccole. D’un tratto arriva una

                donna con una vanga e, senza che nessuno la fermi, si mette a
                scavare la terra da un tumulo. «Per l’amor del cielo, che fa?»

                chiedo  a  un  prete  francese  che  mi  sta  accanto.  «Cerca  un
                parente.  Forse  le  hanno  detto  che  è  sepolto  qui  e  lei  vuole
                esserne certa» risponde il prete. La donna scava, scava. La terra

                si ammucchia, si ammucchia. I bambini guardano, guardano, io
                scappo e attraverso il ponte di barche che porta alla riva Sud.

                    Ecco  là  la  chiatta  di  Johnny.  A  quest’ora  è  a  bordo,  a
                innervosire  chissà  chi,  mi  dico.  E  nello  stesso  momento

                un’esplosione mi abbaglia, lo spostamento d’aria mi getta per
                terra.  «Cosa  è  successo?»  grido  rialzandomi.  Ma  nessuno

                risponde, tutti corrono verso le barche urlando: «La chiatta da
                sbarco, la chiatta». La chiatta non c’è più, al suo posto c’è un
                gran fumo nero, e sulla riva Nord le fiamme si sono propagate
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