Page 142 - Oriana Fallaci - 1968
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«E  ora  che  farai,  Sanford?»  «Resterò  qualche  giorno
                all’ospedale di Da Nang e poi tornerò a casa. A casa facevo il

                tipografo. Dovrò cercarmi un altro lavoro, un lavoro da cieco.
                Ma non me la prendo, sai. Quando penso ai compagni morti mi

                dico: sono stato fortunato, non sono morto.»
                    «E a casa chi hai, Sanford?» «La nonna, solo la nonna. Mio
                padre  morì  che  ero  bambino.  Morì  nella  Seconda  guerra

                mondiale,  nel  Pacifico.  Mia  madre  morì  due  mesi  dopo,  di
                crepacuore.  Praticamente  non  li  ho  conosciuti,  sono  cresciuto

                con la nonna, che è vecchia e non può lavorare e bisogna che
                lavori anche per lei. Non mi spaventa. L’importante è l’essere

                vivo. La vita è bella anche quando si è ciechi.»
                    A  Da  Nang  lo  aspettava  un  ufficiale.  Anche  lui  lo  salutò

                portando la mano al berretto e gli fece un discorsino spiegando
                che  il  suo  sacrificio  simboleggiava  l’eroismo  dei  marine  in
                Vietnam. Il suo caso era noto e il soldato Dennis Medjesky mi

                spiegò perché: durante la settimana trascorsa all’ospedaletto da
                campo  di  Hué  s’era  comportato  benissimo,  senza  mai

                lamentarsi, anzi facendo coraggio agli altri, tentando di rendersi
                utile.  Se  ne  volevo  una  prova  dovevo  seguirlo  all’ospedale  di

                Da  Nang  e  vedere  come  lo  avrebbero  accolto.  Lo  seguii
                all’ospedale  di  Da  Nang,  con  una  camionetta.  Sedeva  fra

                Medjesky e me, sempre contento, sempre tranquillo, magari un
                po’ silenzioso. Solo una volta parlò e fu quando disse: «Il sole
                c’è?».  «Sì,  Sanford,  c’è.»  «Bello  pulito?»  «Sì,  Sanford.  Bello

                pulito.»  «Mi  pareva  di  sentirlo,  infatti,  sugli  occhi.  Come  un
                tepore. Come è brutta l’oscurità.»

                    Poi  giungemmo  all’ospedale  e  lo  guidammo  alla  sezione
                oftalmica. Lo stesso ufficiale lo guidava pel gomito, perché non
                inciampasse: una-due volte inciampò. Contro una porta e contro

                una  lettiga,  che  pena.  Poi  il  dottor  Barnett,  specialista  della
                sezione  oftalmica,  lo  prese  in  consegna:  togliendolo  a  Dennis

                Medjesky,  all’ufficiale,  e  a  me.  Io  restai  nel  corridoio  ad
                attendere.  Non  restai  molto.  Il  dottor  Barnett  riapparve  quasi

                subito  e  quasi  mi  aggredì:  «Lei  è  una  parente,  conosce  bene
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