Page 123 - Oriana Fallaci - 1968
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infiltrato  al  Sud  attraverso  il  Laos  e  poi  le  pianure  centrali.
                Giovane, certo: dal momento che è stato richiamato da poco alle

                armi. E non un contadino: com’erano la maggior parte di quelli
                che  hanno  combattuto  a  Saigon.  Un  medico,  forse,  o  un

                chimico, o un tecnico: allude infatti a un laboratorio di ricerche
                dove lavorava prima di fare il soldato. Parla spesso anche dei
                suoi  libri,  una  volta  del  suo  libraio,  scrive  in  modo  molto

                corretto e tutt’altro che ingenuo. Dargli un volto è impossibile:
                l’unica volta che si descrive fisicamente è per dire il suo orrore

                a guardarsi allo specchio: malato e dimagrito. Le lunghe marce
                lo lasciano esausto, i pesi eccessivi lo stroncano, lo stomaco gli

                fa sempre male, si lamenta di tutto: del caldo, del freddo, delle
                sanguisughe, degli americani. La guerra per lui è un calvario.

                Ma  la  protagonista  di  quel  libriccino  non  è  tanto  la  guerra
                quanto la moglie. Si chiama Can, sua moglie, e gliel’hanno fatta
                lasciare  dopo  quattro  mesi  di  matrimonio:  ogni  suo  pensiero,

                ogni sua invocazione è per lei. A un certo punto egli riesce a
                ottenere il permesso di andare a rivederla e viaggia dieci giorni,

                a  piedi,  solo,  stavolta  senza  lamentarsi,  per  rivederla.  Ma
                quando giunge si accorge d’aver perso tutto il tempo per strada:

                gli restano solo quarantotto ore da trascorrere con lei, nella sua
                città bombardata, dove si aggira vedendo solo crateri di bombe:

                scomparse le strade, le case degli amici, il negozio del libraio.
                L’addio è straziante. Avviene dopo una colazione consumata in
                silenzio, mentre gli occhi di entrambi si dicono la disperazione,

                e  nient’altro  che  quella.  Vale  l’addio  alla  madre  che  piccola,
                vecchia, lo accompagna per un lungo tratto di strada senza dirgli

                nulla, portandogli lo zaino pesante, e lui glielo lascia portare per
                farle  piacere,  ha  il  presentimento  di  non  tornare  mai  più,  di
                morire  alla  guerra.  Ci  morirà.  Non  sappiamo  quando,  non

                sappiamo  come,  ma  possiamo  immaginarlo:  il  suo  diario  si
                arresta proprio due giorni prima dell’entrata a Saigon, ed è noto

                che  un  reggimento  nordvietnamita  infiltrato  dal  Laos
                combatteva intorno all’aeroporto di Tan Son Nhat.

                    Ho  tradotto  questo  diario  di  notte,  mentre  infuriava  un
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