Page 111 - Oriana Fallaci - 1968
P. 111
per terra giacevano i cadaveri di due MP. Dinanzi
all’ambasciata i vietcong stavano sfondando con le granate e i
mortai il muro di cinta, i tre MP a guardia dell’ingresso erano
già morti, ma nessuno era lì a respinger l’attacco. Nessuno,
capisci? Corsi al telegrafo per trasmettere la notizia a Parigi.
Nemmeno al telegrafo sembravano rendersi conto di quel che
accadeva. Ci vollero oltre due ore, e le strade letteralmente
seminate di cadaveri, perché americani e sudvietnamiti si
rendessero conto che la battaglia intorno all’ambasciata non era
un episodio singolo di sabotaggio ma uno dei tanti scontri
dell’offensiva».
«Siamo venuti a liberarvi!»
Perché era una vera e propria offensiva, organizzata e
coordinata coi criteri più rigorosi della strategia militare. Alle
2,50 era stato attaccato anche l’aeroporto di Tan Son Nhat. Ma
qui non c’erano i vietcong con i sandali, c’erano le truppe
nordvietnamite con l’uniforme, combattenti scelti e allenati.
Non a caso qui il combattimento continua anche adesso, mentre
nel centro della città si estinse invece in ventiquattr’ore,
l’ambasciata fu abbandonata dopo sei ore, e sai perché? Perché i
vietcong non riuscirono ad aprire la porta. Era una porta
azionata da un congegno moderno, ma sarebbe bastato un
mazzo di chiavi per trovare quella giusta e spalancare i battenti.
I vietcong non avevano pensato a portare un mazzo di chiavi.
Volevano aprirla a spallate, loro, così minuscoli e fragili, e
quando si accorsero di non riuscirci si misero a sparare granate
e mortai contro la porta. Ma i battenti erano blindati, non si
sfondarono neanche. Quanto al palazzo del governo, i vietcong
non riuscirono neppure ad avvicinarvisi. Si asserragliarono in
una villetta di fronte e lì si lasciarono massacrare. Gli ultimi sei,
cinque uomini e una donna, furono catturati dopo trentasei ore e
giustiziati sul posto. Lo stesso accadde intorno agli altri obiettivi