Page 110 - Oriana Fallaci - 1968
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dalla campagna al mercato. Le avevano messe dentro le case e
                nei cimiteri, le avrebbero prese solo pochi minuti prima dell’ora

                X. L’ora X erano le 2,50 del mattino del 31 gennaio: la notte del
                Tet. Il Tet è il capodanno vietnamita, la festa delle feste, e per il

                Tet  il  coprifuoco  era  stato  abolito.  Gran  parte  dei  soldati
                americani  di  stanza  a  Saigon  erano  stati  mandati  in  licenza,
                molte caserme erano quasi sguarnite e le strade brulicavano di

                gente  rumorosa,  festosa.  Ovunque  scoppiavano  fuochi  di
                artificio, petardi che durante il Tet servono a cacciare gli spiriti

                maligni e implorare gli spiriti buoni, per tutta Saigon c’era un
                fracasso  infernale  e  anche  volendo  non  si  poteva  dormire.  I

                vietcong ritirarono le armi e si diressero verso gli obiettivi in
                questa atmosfera. Se qualcuno avrà mai il coraggio di girare un

                film sulla loro impresa, potrà farci piangere quando ce li mostra
                nell’atto di spostarsi, silenziosi e piccoli come formiche, verso
                gli obiettivi ordinati: l’ambasciata americana, la radio, il palazzo

                del governo, i commissariati di polizia, le prigioni, i depositi di
                esplosivo, le caserme. Con quei sandali che gli scappavano dai

                piedi, con quel nastro rosso legato alla manica con uno spago o
                uno spillo da balia, con quel fagottino di cibo in mano. Mentre

                gli  altri  si  divertono.  Ovunque,  alle  2,50  precise.  Racconta  il
                collega  Pelou,  che  abita  a  neanche  duecento  metri

                dall’ambasciata  statunitense:  «Il  giorno  avanti  i  vietcong
                avevano  attaccato  le  basi  americane  di  Da  Nang,  Nha  Trang,
                Pleiku,  Kon  Tum,  ed  eravamo  in  parecchi  a  prevedere

                un’offensiva generale. Tuttavia non pensavamo a Saigon. Non
                potevamo credere che osassero attaccare un luogo inattaccabile

                come  Saigon.  Quando  il  primo  colpo  scoppiò,  rimasi  stordito
                dallo sbalordimento. Ricordo che dissi: non è possibile, non è
                assolutamente possibile. Il primo colpo fu forte. Squassò le case

                del centro come un terremoto. E dopo quel colpo ci fu un altro
                colpo,  poi  un  altro  ancora:  mi  precipitai  per  strada  e  una

                pallottola mi passò accanto di striscio, una seconda mi cadde ai
                piedi, i vietcong erano ormai dappertutto e sparavano da ogni

                parte. Nella piazza della cattedrale una jeep americana bruciava,
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