Page 169 - Carmina - Poesie latine
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d'uno stambecco. E la coorte in tanto
motti avventava contro il re dei monti,
gran cacciatore, e l'un mostrava all'altro 255
quel re seduto sulla panca al fuoco,
rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno
disse: «E’ mi pare il dio Cernunno, il dio
della ricchezza, con le corna in capo».
Cesare, grave, disse allora: «Io primo 260
sia qui piuttosto che secondo in Roma!»
Regolo alpino, tu balzasti allora,
a un tratto, su, dalla massiccia panca.
Di nera luce ardevano al Romano
gli occhi mortali; dalle tue pupille, 265
splendeano ignude due cerulee spade.
Nel focolare arse piú chiaro il fuoco,
vampeggiò, crepitò, fece faville.
E per le forre, con un'eco arcana
dell'infinito, a lungo mugliò una 270
raffica, come se parlasse il Tempo.
Allora avanti Cesare quel Gallo,
irto di peli il labbro, stette, e parve
grande del pari, ed esclamò: «L'augurio
accetto. Viva io qui tranquillo e pago 275
di questo regno povero, cacciando
i cervi, errando pei selvaggi monti,
fin ch'io non possa essere il primo in Roma!»
Risero tutti, sí, ma la lontana
posterità ventò sulla coorte 280
quasi alitando i secoli futuri.
Cesare quindi una città di guerra
fece ai Taurini, e la muní di vallo,
e di due torri ornò le porte, e, cauto
dell'avvenire, i veterani astati 285
pose in questo romano accampamento,
forti coi forti. E la quadrangolare
città nel suolo si piantò, sicura
per le sue pietre e piú per i suoi cuori.
A destra poi, per una grande porta, 290
badava ad ogni voce, ad ogni suono,
se udisse mai venire le coorti,
se un clangor, lungi, si levasse al vento,
frangesse il vento uno squillar di trombe,
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi 295
della legione, e Roma ritornasse:
e se, di tra gli stípiti rimasti
l'eterna fuga a contemplar degli anni,
s'avesse alfine a ritornare a Roma.
Fuggiva il tempo, e l'acqua dei due fiumi 300
fuggiva anch'ella, in grande oblio di tutto.
Dalle sue porte la città spiava
i quattro venti, rivolgendo a un tratto
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