Page 148 - Carmina - Poesie latine
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LE FAVISSE

              Intanto, quali in una torba sera                       410
            fuggon le nubi d'ogni parte e vanno,
            gemendo, spinte qua e là dai venti,
            tali gli dei cacciati dai lor templi
            empían notturni il cielo di querele.
            E di quei templi l'umide cisterne,                       415
            sin le favisse sotto il Campidoglio,
            fervean d'un cupo murmure. Che i molti
            idoli sacri, l'uno dopo l'altro,
            vi discendeano. E Venere, la vita,
            vedea la prima volta ora i vetusti                       420
            lupi e cignali, e là pur mo' gettata
            schifía Minerva i rozzi cippi e il vano
            dio, ch'era un legno putrido, ed ansante
            non ravvisava, nel Mamurio irsuto,
            Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo                 425
            dell'arce, dietro gli altri dei consenti,
            Giove pieno di nubi il sopracciglio.
            «O già potenti in cielo, sulla terra,
            nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
            altri dal soglio, ed altri noi discaccia.                430
            Ma non è vano l'aspettar vicenda.
            Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro
            cuore, fuggiasco povero deforme
            il cui soglio è la croce, ed il cui serto
            sono le spine dei roveti...» Ed altro                    435
            egli diceva, ma seguí con voce
            piena d'orrore la Carmenta antica
            vaticinante, a nessun dio piú nota,
            ch'ella da molti secoli nell'ombra
            era discesa, tutta rughe e muffa:                        440
            «...non cadrà piú, poi ch'è il dolore umano!
            Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
            il dio sol esso, il solo dio fra tutti,
              che non può mai morire!»

                       L'ESECRAZIONE

              Cadean gli dei; restava il Campidoglio,                445
            inviolato; e immobile la rupe
            pendea sull'urbe. E il Barbaro selvaggio
            invase l'urbe, e la guastò col ferro
            e con la fiamma, e l'unghia de' cavalli,
            grave, pestò le sue ceneri: invano.                      450
            Fin ch'un di loro decretò che lento
            mortal languore la struggesse. Vinta,
            egli poteva anche spianarla al suolo.
            «Ma no» diss'egli: «la sommuova il verno,
            la inondino le pioggie, e disdegnando                    455
            da sé la scuota e gitti via la terra:

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