Page 82 - La passione di Artemisia
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Esitò un momento e poi si voltò per aprire un armadietto chiuso a
chiave. Ne estrasse un involto, lo svolse e allargò le pietre. «Dal lontano
Oriente», disse piano, in tono affettato e misterioso. «Pensi solo a tutte le
mani straniere attraverso cui sono passate per compiere un viaggio tanto
lungo».
«SI, e ciascuna ne ha accresciuto il prezzo. Quanto?»
«Quale pietra?» Toccò la più grande in modo indicativo.
«Tutte».
Spalancò gli occhi, ci accordammo per una certa cifra e chiese: «Posso
domandare chi sarà il destinatario di questo dipinto?»
Raccolsi il mio acquisto e i disegni, sulla porta mi volsi verso di lui,
sorrisi con l'aria di saperla lunga e risposi: «Firenze».
Ingaggiai un falegname per preparare l'intelaiatura alta e stretta, in base
alle misure fornitemi da Buonarroti, per una figura di proporzioni naturali
e per costruirmi un cavalletto più grande, oltre a un armadietto personale
per riporvi i disegni, i pennelli e i pigmenti. Da quel momento in poi
eravamo una coppia di pittori. Forse un giorno saremmo stati in tre.
Preparai l'imprimitura per la tela e macinai i pigmenti in anticipo, ma
non aggiunsi l'olio di semi di lino fino al momento di usarli. Durante le
pose di Vanna cominciai a tracciare solo un primo abbozzo del dipinto. Le
settimane trascorsero nella gioia di creare la forma attraverso i colori e le
ombreggiature. Lavoravo in un turbine, dimentica di tutto, tranne del
piacere di stendere i colori. Stavo lavorando alla caviglia, quando sentii la
voce di Palmira giungermi come da un luogo lontano. «Mamma, ho fame.
Mamma».
Mi mancò il respiro. Era pomeriggio inoltrato. «Oh, tesoro.
Mi dispiace tanto. Mangiamo subito». Corsi a prenderle una ciotola di
pasta rimasta dal giorno prima. Condii delle fave con olio d'oliva e presi
pecorino e peperoni per Vanna, che invitai a unirsi a noi. Misi del miele su
un pezzetto di pecorino e lo porsi a Palmira.
«Ecco che c'è di bello nell'avere per casa una bambina», disse Vanna.
«Ti fa smettere di lavorare, così possiamo mangiare».
«Quanto uno di quegli orologi a cucù». Spinsi verso di lei un piatto di
fichi. «Hai mai desiderato dipingere?» le chiesi.
«Mai. Perché sottoporsi a tutta quella sofferenza? Gli uomini
dipingono. Le donne posano. Così devono andare le cose».
«Se è questo che pensi, perché sei venuta quando era chiaro fin
dall'inizio che ero una donna?»
«Mi serviva il denaro. Sono sola e ho due bambini. Le alternative le
conosci bene quanto me».
Anche se ero curiosa di sapere che fosse successo a suo marito, o se ce
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