Page 234 - La passione di Artemisia
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Mi  prendo  la  libertà  di  inviare  a  Vostra  Altezza  questa  piccola  prova

          della mia arte, perché Voi possiate determinare se sono degno di meritare
          di essere assunto al Vostro servizio per quel poco che mi rimane da vivere,
          se questo mio modesto talento sarà sufficiente a realizzare il mio ardente

          desiderio  di  tornare  nella  mia  amata  patria,  sottomettendomi  a  Vostra
          Altezza Serenissima, a cui mi inchino con devota affezione dall'Inghilterra.
               Se l'aveva davvero inviata e quella era solo una minuta, evidentemente
          non  aveva  ricevuto  risposta.  Probabilmente  era  da  tanto  tempo  che
          desiderava  tornare  a  casa,  ma  aveva  paura  di  lasciare  un  lavoro  sicuro.

          Questo lo potevo comprendere.
               Aveva le stesse radici del dolore che provavo io nel sentirmi sradicata.
          Mi  rattristò  quella  sua  esagerata  mortificazione.  Praticamente  stava

          mendicando una commissione presso un bambino, dopo aver lavorato per
          una  vita  per  cardinali  e  regine.  Sentii  un  nodo  alla  gola.  Anche  lui  aveva
          sofferto umiliazioni.
              La cassapanca era aperta e i suoi vestiti erano in disordine.
              Mi sentii mancare. La biancheria era ridotta in stracci.

               Sopra un davanzale c'era uno scrigno intagliato, il gemello di quello che
          avevo  tenuto  per  me.  Andai  alla  porta  e  rimasi  in  ascolto,  ma  non  sentii
          nulla e così lo aprii. Sopra tutto il resto c'erano le mie lettere da Firenze,

          stropicciate e con l'inchiostro sbiadito. Le rilessi. La nascita di Palmira, la
          prima  commissione  di  cui  ero  stata  incaricata  da  Cosimo,  la  mia
          ammissione all'Accademia. Quest'ultima mi fece rimordere la coscienza. Lo
          avevo a mala pena ringraziato per aver scritto a  Buonarroti, anche se era
          stato grazie a quella lettera che Firenze aveva cominciato ad accettarmi.

               Sotto le lettere c'erano alcune monete romane, fredde al tocco, tenute
          probabilmente  nella  speranza  di  tornare,  e  la  fede  matrimoniale  di  mia
          madre.  Il  grosso  rubino  che  ricordavo  era  stato  tolto.  Non  mi  piaceva

          pensare  che  cosa  significasse  una  cosa  del  genere.  La  scatola  era  stata
          foderata con il disegno infantile di un volto di donna. Sul retro era scritto:
          "Amore mio, Artemisia mi ha fatto questo ritratto per te il giorno del suo
          decimo compleanno. Cerca di fare in modo che abbia un matrimonio felice
          come il nostro. Prudenzia".

               Quanto  avrebbe  sofferto  mia  madre,  se  avesse  assistito  alla  scena  di
          prima.
               Lo  squallore  della  sua  vita,  i  trent'anni  passati  senza  di  lei,  più  di  un

          decennio  lontano  dalla  sua  patria,  limitato  nel  comunicare  dalla  lingua
          straniera. Quanto tempo era passato da quando qualcuno l'aveva toccato, a
          parte  qualche  pacca  sulle  spalle,  un  contatto  che  gli  facesse  sentire  di
          essere ancora vivo? Mi meravigliò il coraggio di quella solitudine.
               Sarei stata in grado di fare altrettanto, quando avessi avuto la sua età?



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