Page 238 - La passione di Artemisia
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«L'amore»,          ripetei      con      ironia.      «Amare         significa       illudersi

          volontariamente, adorare qualcuno nell'attesa di essere soffocati».
              Contrasse il volto.
              «Sì, questo l'ho trovato, se vuoi chiamarlo amore. Ma persino un amore

          non corrisposto, un amore infelice, è meglio del non amare. Sono grata di
          aver  provato  questo  sentimento.  Dunque,  immagino  di  non  avere
          rimpianti».
               Gli  toccai  il  braccio  goffamente.  Piano  piano  la  sua  espressione  si
          addolcì. Vacillò leggermente e dovette sedersi.

              Avvicinai una sedia alla sua.
              «Ho qualcosa da farti vedere», gli dissi, e gli porsi il pennello avvolto in
          un  panno.  Lo  srotolò.  «Apparteneva  a  Michelangelo.  Me  lo  ha  dato

          Buonarroti il Giovane».
               Tenendolo in mano lo fissò e trasse un respiro, quasi un rantolo. «Con
          questo lui dipingeva le anime, Artemisia. Io, io dipingo solo i corpi».
              «Tu hai dipinto la tua anima, padre. Ricordi il Magnificat?.
              "La  mia  anima  magnifica  il  Signore".  Ecco  che  cosa  hai  fatto  tu:  hai

          esaltato la bellezza di Dio con l'opera di tutta la tua vita».
              «Lo pensi davvero?»
              «Con tutto il cuore».

              «Ma a che prezzo».
              Sollevai le spalle. «"La ricompensa appartiene a Dio".
              Me lo disse molto tempo fa suor Paola. Non sta a noi».
               Dopo  un  po'  alzò  il  pennello  e  fece  l'atto  di  dipingere  un  quadro
          immaginario, sorridendomi e guardandomi, come se fossi la sua modella.

              «Tu hai fatto il mio ritratto, vero? Sul soffitto del Casino delle Muse del
          cardinal Borghese».
              «L'hai visto?» Il volto gli si illuminò.

              «Un'opera magnifica». Diglielo, ordinai a me stessa.
              «Una  magnifica  collaborazione».  Sui  suoi  occhi  si  posò  un'ombra  di
          dolore, una disperazione che comprendevo.
              «Avete lavorato insieme come foste uno».
              «La  cosa  peggiore  e  migliore  che  abbia  mai  fatto.  Che  continua  ad

          affliggermi».
              «Come facevi a sapere che, vent'anni dopo, sarei stata distratta?»
              «Non  era  la  distrazione  che  faceva  guardare  quella  figura  da  un'altra

          parte». Fece una risatina lieve, triste. «Eri tu che mi guardavi con sguardo
          d'accusa mentre ti ritraevo».
              Mi rese il pennello.
              «Non l'ho mai usato», gli dissi.
              «Posso capire. Sarebbe stato dissacrante».



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