Page 240 - La passione di Artemisia
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si  riposava,  nel  pomeriggio,  il  mio  lavoro  era  una  corsa  contro  il  tempo,

          sempre con l'orecchio teso ai suoi respiri irregolari e rantolanti.
               Spesso  canticchiavo  la  melodia  di  qualche  canzone  che  conosceva,
          perché  ne  cantasse  le  parole.  Cominciammo  a  trovarci  bene  insieme  in

          modo  diverso  dal  passato.  Mi  sentivo  leggera,  in  maniera  strana  e
          inaspettata.  Prima  d'allora  mi  ero  sempre  controllata,  non  avevo  mai
          vissuto  liberamente,  né  con  Pietro,  né  con  Palmira.  Ma  lì,  dove  nessuno
          sapeva  nulla,  non  temevo  i  giudizi  e,  poiché  mio  padre  e  io  avevamo  lo
          stesso modo di sentire, tutta la rigidità con cui avevo vissuto si scioglieva e

          cominciai a sentirmi me stessa.
               Se  fosse  stata  una  sensazione  genuina  e  duratura,  sarebbe  stato
          meraviglioso.

               Avevo  vissuto  troppo  seriamente,  mi  ero  aggrappata  troppo
          strettamente  al  giudizio,  avevo  lasciato  che  la  paura  mi  irrigidisse.  Non
          c'era da meravigliarsi che avessi sofferto di mal di schiena per tutta la vita.
          Avrei dovuto fare certe cose - mettere più messaggi segreti nei miei dipinti,
          portare Palmira sopra il campanile, andare a trovare Galileo a Bellosguardo,

          fargli  il  ritratto  e  donarglielo.  Avrei  dovuto  ballare  di  più,  godermi  le
          attenzioni  di  Francesco,  invece  di  difendermene.  Avrei  dovuto  prendere
          quel  sasso  che  avevo  trovato  sulla  via  Appia  il  giorno  del  verdetto  e

          lanciarlo  -  non  contro  qualcuno  o  qualcosa  -  ma  in  aperta  campagna,
          affinché  cadesse  in  qualche  posto  sconosciuto  e  si  mescolasse  con  gli
          elementi - solo per il piacere di fare quel gesto col braccio.
               Era  colpa  mia  se  non  mi  ero  goduta  le  dolcezze  della  vita.  Francesco
          aveva detto che ora ero libera di essere me stessa. Sì. Napoli sarebbe stata

          diversa quando vi fossi tornata.
               Una  mattina  mio  padre  mi  disse  che  aveva  da  sbrigare  delle
          commissioni a Londra e che avrebbe usato la barca.

               Non volle che andassi con lui.  Era la seconda volta che lo faceva.  Ero
          preoccupata  per  lui,  così  vecchio  e  fragile,  in  viaggio  da  solo.  Mentre  era
          assente cercai di lavorare il più possibile. Quando quella sera arrivò a casa
          senza  fiato,  si  lasciò  cadere  sulla  prima  poltrona  che  trovò  e  si  mise  a
          osservare quello che avevo fatto. «Sei una brava pittrice.

              Migliore di quanto io lo sia adesso». Il suo petto ebbe un sussulto.
              «Sei stato il mio maestro».
              «Sì. Ti ho insegnato a soffrire».

              «Mi hai insegnato a vedere e a usare la mia immaginazione.
              Mi hai risparmiato una vita di scampagnate e di ricami».
              «Mi dispiace che ti siano mancate le scampagnate».
              «Ho ancora molto tempo per quelle. Magari con dei nipotini. Ricordi i
          fiordalisi azzurri lungo la via Appia?»



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