Page 171 - La passione di Artemisia
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20. Lucrezia







               La mattina in cui mio padre sarebbe venuto di buon'ora per presenziare
          alla     solenne       inaugurazione          della     mia      Lucrezia,       in     occasione
          dell'anniversario di Cesare e Bianca, mi lavai i capelli e indossai un vestito
          pulito. Mi sedetti su un'ottomana nel salone, sfiorando con le dita il rilievo
          del  cuoio  inciso.  Non  volevo  che  arrivasse  mentre  ero  di  sopra  e  che

          vedesse i miei dipinti senza di me; attesi, mordicchiandomi la pelle secca
          del labbro inferiore, fino a farlo sanguinare.
              «Sono  stato  trattenuto»,  fu  tutto  quello  che  seppe  dire,  quando

          finalmente arrivò nel pomeriggio.
               Lo  portai  in  giro  per  la  stanza  ed  esaminò  ciascuno  dei  miei  dipinti.
          Annuì, li scrutò più da vicino, poi arretrò di qualche passo per vederli da
          lontano.  Si  dondolava  avanti  e  indietro  sui  tacchi,  con  le  mani  dietro  la
          schiena, approvando con orgoglio, quasi li avesse dipinti lui. Ma io volevo

          di più. Di' qualcosa, dicevano supplicando i miei occhi.
              Di fronte alla Cleopatra disse: «Dov'è il morso dell'aspide?»
              «E'  tutto  quello  che  sai  dire?  Dopo  dieci  anni  che  non  vedi  il  mio

          lavoro? "Dov'è il morso dell'aspide?"»
              «Io...»
              «E se fosse morta per un altro motivo? Il terrore del ludibrio pubblico
          era in fondo sufficiente per ucciderla».
              A quest'idea dalla bocca gli uscì un suono inarticolato.

              «Ancora  non  lo  capisci,  padre?  Quanto  può  essere  velenoso  il  morso
          della paura di essere esposta al pubblico?»
              Quando il suo sguardo si posò su di me, aveva le narici dilatate.

               Tacqui  ma,  poiché  non  diceva  nulla,  aggiunsi:  «Meritava  il  diritto  di
          piangere in privato la sua perdita».
               Si morse le labbra. «Tu...» Si schiarì la gola. «Hai imparato dalla vita più
          di quanto io potessi insegnarti».
               In  silenzio  ripetei  a  me  stessa  le  sue  parole,  per  udirle  una  seconda

          volta. «Grazie».
               Lo condussi di sopra, nel mio studio. Avevo coperto la Lucrezia con un
          panno, in modo che non la potesse vedere subito. Guardò di nuovo Giuditta

          che uccide Oloferne e Susanna e i vecchioni e sorrise riconoscendoli.
              «Bellissimi come li ricordavo».
               Ecco che cosa volevo sentire. Poi scoprii Lucrezia. La studiò per un po' e
          questa volta ci pensò un poco, prima di dire qualcosa. «L'hai dipinta come
          se avesse paura di compiere quel gesto».



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