Page 168 - La passione di Artemisia
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possano trovarne uno che lo sia anche solo la metà di lui».
«E anche Palmira. E Renata».
«Questa è una famosa donna romana di nome Lucrezia», spiegai a
Palmira, che stava seduta su una sedia dietro di me, dondolando le gambe e
mangiando un'arancia.
Lavoravo allo sfondo, senza la modella, che avevo fatto posare con una
camicia bianca scomposta, intrecciata con un copriletto di velluto rosso
cupo, dello stesso colore dei gladioli. La figura stringeva in una mano il
pugnale di mia madre, puntandolo contro uno dei seni rigogliosi, che
teneva con l'altra. La vita e la maternità contrapposte al suicidio e al
martirio - ecco entrambe le strade.
«La conoscevi?»
«No. E' vissuta duemila anni fa». Così tanto tempo è passato - pensai - e
certe cose non sono ancora cambiate.
Smisi di dipingere. «Sì. In un certo modo l'ho conosciuta».
Forse ormai Palmira era grande abbastanza da poter sapere dell'altro,
oltre che occuparsi di merletti e trine. «Un uomo la violò contro la sua
volontà e la disonorò. Questo significa che le fece una cosa che lei non
voleva».
Palmira continuò a gustare l'arancia. «Ha una gambona».
«Serve a richiamare l'attenzione sulla tensione del ginocchio e della
coscia. Ne richiama l'espressione. Vedi, la gente la trattò con crudeltà.
Pensarono che le fosse piaciuto quello che le aveva fatto quell'uomo, ma
sbagliavano. Così lei non volle affrontarli».
Palmira scostò rumorosamente la sedia.
«E così, trovò un pugnale...»
«Non voglio sentire. Non voglio più sentire altre storie orribili». Lasciò
cadere l'arancia, si mise le mani sulle orecchie e corse fuori dalla stanza.
Rimasi senza parole. Non immaginavo che quelle storie la turbassero
tanto. Posai il pennello e pensai che fosse il caso di correrle dietro, ma
sarebbe andata in camera di Margherita e si sarebbe distratta. Non c'era
nulla di male.
Ma in quelle storie c'era del male?
Una mattina non mi alzai dal letto. Da tre giorni non lavoravo alla mia
tela. Rimasi immobile, fissando il soffitto, su cui mi parve di vedere
fluttuare il dipinto allo stadio in cui l'avevo lasciato. Avevo terminato lo
sfondo, le pieghe della camicia bianca, il copriletto rosso scuro, spiegazzato
sul letto su cui era stata stuprata, la gamba nuda, il braccio e la mano destra
che stringeva il seno pronto per essere penetrato dalla lama, ma la mano
sinistra, con il polso piegato, che brandiva il pugnale contro il seno, l'avevo
solo accennata. Non ero stata capace di proseguire. Avevo congedato la
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